Un uomo chiamato distruzione.

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Tutti hanno le loro ossessioni. La mia si chiama Alex Chilton. Ci tenevo a scriverlo alla prima riga del primo post del mio primo (e presumibilmente ultimo) blog. Musicalmente, A-L-E-X-C-H-I-L-T-O-N è un po’ il mio codice fiscale. O quello del DNA, è lo stesso.

Non ricordo di preciso quando è cominciata, ma ricordo che la prima volta che ho ascoltato la voce di Alex Chilton non sapevo che fosse la voce di Alex Chilton. Non sapevo neanche chi fosse Alex Chilton, per essere più precisi. Quella voce diceva una cretinata tipo “gimme a ticket for an aeroplane/ain’t got time to take a fast train…”. Era il 1982, avevo 14 anni e il 45 giri di The Letter lo avevo fregato alla collezione di mio zio, uno che diciassettenne nel ’68 comprava (in Italia!) cose come il primo disco degli Electric Prunes, See Emily Play o Safe as Milk, e quindi era super-avanti. Da ragazzo andava a un liceo di preti e si presentava a scuola col mantello nero con disegnata la “A” cerchiata e la spilletta “LSD not LBJ”. Che figo. Poi nel ’72 o giù di lì aveva smesso completamente di ascoltare musica perché gli faceva schifo il prog. Caso da manuale, praticamente perfetto: uno zio beat-psichedelico e inconsapevolmente punk. Che poi è quello che è diventato per me lo stesso Chilton, almeno idealmente. Hanno pure la stessa età. Sta di fatto che quel singoletto – trafugato  insieme a una mezza tonnellata di Stones, Neil Young, Led Zeppelin, Small Faces, Troggs, Kinks e Creedence – mi piacque abbastanza, anche se dei Box Tops preferivo Soul Deep e Cry Like a Baby (ebbene sì, Uncle Ernie aveva pure quelli). Però insomma, quando stai scoprendo tutto quel ben di dio musicale in una botta sola, l’Italia ha appena vinto i mondiali e gli ormoni cominciano a bussare alla porta, beh non sono certo i Box Tops quelli che ti possono cambiare la vita.

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Avanti veloce al 1987. Vado ai concerti, leggo le riviste musicali, compro più dischi di quanti potrei permettermi con la paghetta da liceale passatami da mio padre (al quale invece, Let It Be a parte e non ho mai capito perché, il rock ha sempre fatto senso), e quel nome lì, Alex Chilton, lo trovo citato un numero spropositato di volte. Insieme a quello del suo gruppo di quindici anni prima (quindici anni erano un sacco di tempo, allora). “Big Star. Che nome del cazzo”,  fu la prima cosa che pensai. Poi però c’erano i R.E.M., che in quel momento per me erano più o meno la divinità incarnata sotto quadruplice forma, che continuavano a raccontare nelle interviste quanto erano stati importanti per loro Alex Chilton e i Big Star. Mmmh. E poi c’era quell’altro gruppo di smandrappati che adoravo, i Replacements, che a un certo punto se ne escono addirittura con una canzone chiamata proprio così: “Alex Chilton”. Oh, dear, how I was in love with that song. E sul disco che la conteneva, Pleased To Meet Me, c’era pure lui in persona, che suonava in qualche pezzo. Ricordo che in un’intervista su “Rockerilla” Westerberg raccontava di quando una sera avevano fatto un concerto insieme e Chilton era così ubriaco – più ubriaco di Paul Westerberg?? – da avergli mandato a puttane la cover di un pezzo. Un pezzo dei Big Star. “Cristo santo”- si lamentava Paul – “sei il mio idolo e manco ti ricordi le parole delle tue canzoni? Ma vaffanculo”. Ehi, comincia a piacermi, questo Alex Chilton. Fammi dare la maturità poi vado a cercarmi ‘sti cavolo di Big Star. Passarono un altro po’ di mesi, soldi non ne avevo e finì che Number One Record me lo comprai per festeggiare il primo esame, un 30 vergognosamente rubato di Filosofia Teoretica.

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(Chilton & Westerberg)

Ecco, adesso dovrei raccontare la mia epifania-Big Star. Lascio invece la parola a Peter Jesperson – il manager-pigmalione, guarda un po’, proprio dei Replacements – e così introduco finalmente l’argomento di questo post, che in teoria sarebbe A Man Called Destruction, la biografia di Chilton scritta da Holly George-Warren e pubblicata da qualche mese negli Stati Uniti, che io ovviamente mi sono preso su Amazon UK dieci minuti dopo che è uscita. In una pagina del libro Jesperson  racconta di quando, adolescente a Minneapolis, un giorno di metà anni ’70 ascolta per la prima volta il primo disco dei Big Star.

“Improvvisamente vedo sugli scaffali del negozio questo stellone al neon, laminato. Sembrava un lp di importazione. Ce n’erano una dozzina, costavano 99 cent. Ne presi uno per un mio amico di Londra che me lo aveva chiesto, e sulle prime non pensavo di prendermene una copia anche per me. Poi mentre ero in coda per pagarlo ho pensato ‘però, che copertina figa’”.

Prende un altro Number One Record, va a casa, lo mette sul piatto e

“ricordo che arrivato alla quarta canzone, Thirteen, mi sono aggrappato alla sedia e ho pensato ‘oddio’. Quella canzone ha aperto la diga, e sono impazzito per la band. Ho cominciato a parlare dei Big Star a tutti quelli che conoscevo”.

Lo stesso flash, lo stesso bisogno di evangelizzare il mondo su questo mistero meraviglioso che devono aver provato altri ragazzi nei quindici o vent’anni successivi, tutti membri di quella dead Big Star society cresciuta lentamente ma inesorabilmente. È stato così per ciascuno di loro: Peter Buck e Mike Mills a Athens, Chris Stamey in qualche buco della Carolina del Nord,  Ira Kaplan e Georgia Hubley nel New Jersey, Elliot Smith a Portland, Evan Dando a Boston, Bobby Gillespie e Norman Blake a Glasgow, Jon Auer e Ken Stringfellow a Seattle, Jeff Tweedy a St. Louis…e molto più modestamente, è stato così anche per un nerd diciannovenne di Torino al suo primo esame universitario.

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Un pomeriggio dell’88, dunque. Metto su il disco, un vinile color bianco latte scaduto di un’etichetta tedesca, la Line. Mi sdraio sul letto, leggo le note di Brian Hogg sul retrocopertina, a contorno della celebre foto del gruppo in penombra davanti a una finestra (la prima frase era: “rarely has anyone betrayed his talent so completely”…cominciamo bene) e via, sentiamo.  Il primo pezzo è un rock-glam piuttosto piacevole, ma le mura di Gerico sono ancora al loro posto. Tutto qua, i famosi Big Star? Poi parte l’arpeggio di The Ballad of El Goodo, e le bibliche mura non è che crollano: vengono polverizzate. Gli inglesi li chiamano life-changing moments: ecco, musicalmente di momenti così ne ho avuti forse giusto te o quattro, nella vita. Forse anche meno. La prima volta con Ballad of El Goodo è stato uno di questi. Una delle poche canzoni delle quali parla bene persino Alex Chilton. Nel libro si riporta questa frase, insolitamente non auto-denigratoria: “the music is really good: the lyrics are a little strained in the verses, but the choruses kick ass”. Poi scopro anche, nella stessa pagina, che le armonie vocali ispirate ai Beach Boys sono opera di Alex, Chris Bell e Terry Manning, che il riff finale è preso da Doc Watson e che c’è pure un phaser che aggiunge “an unexpected bit of metal”. Ma lasciamo stare i dettagli tecnici. Perché tornando a quel pomeriggio dell’88, ora dovrei descrivere l’altra mazzata che sarebbe arrivata da lì a poco. Si chiama Thirteen. Non mi dilungo: in fondo, è solo una delle mie due canzoni della vita (l’altra, per la cronaca, è Waterloo Sunset dei Kinks). Per quanto mi riguarda non c’è nulla, assolutamente nulla – a parte forse alcune sequenze di qualche film di Truffaut, o John Hughes – che abbia saputo cristallizzare tutta la magia terribile dell’adolescenza come la strofa che recita “won’t you tell your dad get off my back/tell him what we said ‘bout Paint It Black/Rock’n’roll is here to stay/come inside where it’s ok”. La paura di diventare grandi, la condivisione di qualcosa che è solo nostro, mio e tuo, e la sensazione che non durerà.

Ma qui mi servono le parole di un fuoriclasse. Nel suo ultimo magnifico libro, Mytunes (Baldini & Castoldi), Maurizio Blatto parlando di Thirteen (che descrive come “un’eterna ancora di salvezza a portata di mano”) scrive:

Puoi dire a tuo padre di non starmi troppo addosso? Digli cosa ci siamo detti su Paint It Black. Due adolescenti innamorati. Della loro età e del rock’n’roll. Hanno discusso di Paint It Black dei Rolling Stones. A quell’età vorresti davvero tutto colorato di nero. Perché non sai che dopo qualche anno sarà esattamente quello il colore del mondo. (…) Rock’roll is here to stay. Non è una domanda. Ma la risposta è sì”.

Ci si può chiedere cosa pensasse Chilton di questo monumento di canzone, che si ispirava a una cotta liceale per una tale Luise Leffler (grazie Luise, ovunque tu sia). Ecco: “I don’t know where it come from, but I made up this wild bit of guitar in fifteen minutes. You don’t hear many twenty year olds doing that”. Capito? Ci aveva messo quindici minuti a scrivere una cosa che alla stessa età mi ha cambiato la vita. Quindici minuti. Aveva ragione Westerberg: vaffanculo, Alex.

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(Alex Chilton e Holly George-Warren nel 1993)

Per uno che da ventisei anni si inginocchia davanti all’altare chiltoniano, e che ha archiviato fisicamente e mentalmente centinaia di articoli e interviste, A Man Called Destruction (Viking/Penguin) è comunque una manna dal cielo. Il paradigma di come dovrebbe sempre essere una biografia. Scrittura fluida, ricordi di prima mano, interviste a tutti coloro che hanno avuto a che fare con il soggetto del racconto, verifiche sui luoghi, minuziosa ricostruzione cronologica, vicinanza “sentimentale” all’argomento con totale assenza di non richieste valutazioni soggettive dell’autore. La buona vecchia scuola giornalistica anglosassone, insomma. Ma non solo. Holly George-Warren – collaboratrice del New York Times, di Rolling Stone e del Village Voice, autrice di una bella biografia di Gene Autry, due volte candidata al Grammy e musicista lei stessa in gioventù con il gruppo garage-punk femminile Das Fürlines  – conosceva bene Alex Chilton. Erano amici.

La prima volta che lo conobbe gli vomitò nel lavandino, e queste sono cose che cementano un rapporto. Chilton, che a modo suo era un perfetto esemplare di gentiluomo del Sud, non si formalizzò. Del resto, “era abituato a Lux Interior”. Holly e la sua amica Melinda, giovanissime e ossessionate dai dischi dei Big Star e da Like Flies on Sherbert, erano andate a cercarlo a New Orleans, dopo aver guidato “à la Kerouac e Cassidy”, per tutto il paese. Chi è che fa ancora cose del genere, oggi? Al massimo mandi una richiesta di amicizia su facebook (come del resto ho fatto io con l’autrice). Da allora, lei e Alex sono rimasti in contatto per quasi trent’anni, e l’idea originaria era di scrivere una biografia a quattro mani. Poi l’incostanza di Chilton ha avuto il sopravvento e il progetto venne accantonato, fino alla mattina del 17 marzo 2010, quando una telefonata le annunciò la morte dell’amico. Quel giorno, Holly prese la decisione di raccontarne la vita. Un impegno che ha mantenuto egregiamente.

Mi racconta di aver impiegato tre anni e mezzo a scrivere il libro, intervistando più di un centinaio di persone, spulciando migliaia di articoli su riviste e fanzine, girando gli States in lungo e in largo.  La cura dei dettagli e la precisione quasi da storiografa sono una costante in tutto il testo, a cominciare dal primo capitolo, The Chiltons of Virginia and Mississippi, nel quale si ricostruiscono le radici del musicista risalendo fino alla fine del ‘700, come per i presidenti degli Stati Uniti. Ma non si tratta di un resoconto asettico. L’affetto e l’ammirazione dell’autrice per il personaggio di cui parla sono palpabili in tutto il libro, pur non scadendo mai nell’agiografia. “Alex era un uomo affascinante sotto molti punti di vista, ma sapeva essere estremamente lunatico. Poteva anche ferire le persone, o essere cinico. Ma gli veniva perdonato tutto per via del talento e del carisma che emanava”. Non c’è una sola persona intervistata – da Jody Stephens a Tav Falco, da John Fry a Jim Dickinson, dalla ex Lisa Aldridge (una forse ancora più pazza e dissoluta di lui) alla sorella Cecilia, da chiunque abbia suonato con lui all’ultimo dei fan – che non manifesti questa assoluta venerazione per l’artista e per l’uomo, al di là dei limiti caratteriali e delle lune storte. Il lato oscuro di Chilton viene a galla in più punti – c’è una pagina, in apparenza comica ma a ben guardare agghiacciante, nella quale si racconta di una session di incisione alla Ardent nella quale Alex ubriaco e strafatto raccoglie per strada un barbone e lo obbliga a fare la seconda voce in un pezzo – così come vengono doverosamente enumerate le tragedie che ne hanno costellato l’esistenza: la morte del fratello maggiore affogato in una vasca da bagno durante una crisi epilettica, quella del partner artistico nei primi Big Star Chris Bell in un incidente d’auto, il suicidio della madre del suo unico figlio Timothy, le vicissitudini di quest’ultimo tra droga e piccola criminalità, la fine terribile della madre morta in un incendio, e così via.  Ed è buffo e spiazzante scoprire come Chilton, secondo la George-Warren, affrontasse i traumi della sua vita affidandosi ai libri e all’astrologia, per cui aveva una passione morbosa (September Gurls parla di quello). “I buchi neri della sua vita li ho scoperti mentre facevo le ricerche per il libro, con me di queste cose non ha mai parlato. Ripensandoci, è evidente quanto lo hanno segnato”. Ma alla fine, non c’era libro, zodiaco, droga o september gurls che tenessero: l’unico grande amore di Alex Chilton è sempre stata la musica. E Lesa, forse.

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(Lesa Aldridge)

 Di musica ce n’è tantissima, in A Man Called Destruction. Non solo quella fatta da Chilton, con i Big Star o da solo.  Ma anche quella che ha prodotto, quella che amava, quella che suonavano i suoi innumerevoli compagni di strada. In questo senso, la narrazione della George-Warren è semplicemente perfetta, mostrando tutta la competenza e la sensibilità di una scrittrice che è stata anche musicista. Il libro documenta in modo formidabilmente vivido non solo la carriera di Chilton, ma anche un’epoca gloriosa e ancora pionieristica della musica – e dell’industria musicale – americana. Uno degli esempi più divertenti non riguarda neppure Chilton, bensì il suo vecchio mentore nei Box Tops Dan Penn. Una sera questi si chiude in studio con il fido partner Spooner Oldham: sono a corto di hit per il gruppo, devono assolutamente scriverne una per il mattino dopo. Alle tre di notte non hanno ancora cavato un ragno dal buco, si prendono una pausa in un bar aperto fino all’alba. Fumano e bevono l’ennesimo caffè nella notte di Memphis, sono disperati. A un certo punto Oldham china la testa sul tavolo e mugugna: “potei piangere come un bambino”. Penn lo guarda e gli fa “fermo lì! che hai detto? che hai detto??”, si precipitano fuori dal bar e tornano in studio urlandosi l’un l’altro pezzi di testo mentre corrono per strada. E fu così che nacque Cry Like a Baby.

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Ma la fotografia più bella, con i colori di una polaroid anni 70, è quella dell’ambiente che gravitava attorno alla etichetta Ardent. Un gruppo di amici uniti dalla passione per la musica, specialmente quella inglese. Una famiglia, con John Fry e Jim Dickinson nel ruolo di fratelli maggiori (di genitori è meglio non parlare). Una famiglia,purtroppo, assolutamente disfunzionale. La storia della Ardent e quella dei Big Star si sovrappongono, e ciò che nasce come una enclave di creatività e di amicizia tra ragazzi appesi a un sogno sfocia lentamente in una fosca tragedia sudista. Sullo sfondo, la Memphis livida e romantica di metà anni ’70.

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Il capitolo dedicato alle registrazioni di quel viaggio al termine della notte che è il terzo disco dei Big Star risulta il più avvincente (e disturbante) del libro. C’è una frase di Jim Dickinson che spiega tutto:

Alex in quel momento sentiva una band che non esisteva, era solo nella sua testa. Sentiva cose che non succedevano realmente. Third è il tentativo di registrare quella band nella testa di Alex”.

Chiedo a Holly cosa avrebbe pensato Chilton del tributo, peraltro sincero e commovente, a quel disco che da qualche anno amici e colleghi come Jody Stephens, Mitch Easter, Mike Mills, Chris Stamey e molti altri portano in giro per i festival musicali. “Credo ne sarebbe contento. Per lui Third era un disco molto personale, mi disse che era quello in cui aveva messo dentro più di se stesso. Lo amava e allo stesso tempo lo odiava, perché non aveva avuto voce in capitolo sul missaggio, la scelta delle canzoni e così via. Ma visto l’affetto che ha sempre avuto per Chris Stamey, e la sua capacità negli ultimi anni di distanziarsi dal passato o quanto meno di scendervi a patti, penso lo avrebbe approvato”.

L’omaggio dei vecchi amici può anche essere utile a cementare l’appeal dei Big Star e di Chilton presso le generazioni più giovani. In un bellissimo pezzo pubblicato on line il marito di Holly, Robert Burke Warren (anch’egli musicista) racconta di come entrambi avessero cercato di spiegare al figlio chi fosse quello strano “zio” che ogni tanto veniva a trovarli,  e perché la madre stesse così tanto tempo lontano da casa per raccontarne la vita in un libro. L’articolo si chiude con l’immagine della coppia che nascosta dietro la porta ascolta il ragazzo suonare Thirteen durante il party del suo sedicesimo compleanno. “E’ stupefacente – sostiene la George-Warren – come la musica di Alex possegga una sorta di qualità a-temporale, come continui ad affascinare e a soggiogare a distanza di quarant’anni da quando è stata scritta”. Rock’n’roll is here to stay, come inside where it’s ok.

L’ultimo flash: il giorno in cui ha avuto l’infarto che gli sarebbe costato la vita, Chilton venne portato in ospedale dalla compagna. Una corsa in auto disperata e inutile. Le sue ultime parole, rivolte alla donna, sono state: “passa con il rosso”. Miglior battuta di chiusura non poteva esserci, per un uomo che è passato con il rosso per tutta la vita.

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