In Third Stone From The Sun, a un certo punto si sente Jimi Hendrix bofonchiare “you’ll never hear surf music again”. Questa notte, dopo aver visto All is By My Side, ho sognato Hendrix a Monterey che cantava “you’ll never see rock biopics again” e alla fine invece che alla Stratocaster dava fuoco al manifesto del film (il regista, ne convengo, era troppo). Ma appunto, si tratta di un sogno. Al contrario del surf, i film sulle icone del rock non passeranno mai di moda, e già tremo al pensiero di chi sarà la prossima vittima. Dei morti non dovrebbe mancare più nessuno, dei vivi sta per arrivare sugli schermi il povero Brian Wilson e dio non voglia che dopo le star e i belli & dannati giunga il turno degli eroi di culto. Lasciatemi stare gli Alex Chilton, i Townes Van Zandt, le Sandy Denny, le Ari Up, le Laura Nyro, i Gene Clark, i Syd Barrett, gli Arthur Lee, gli Elliott Smith. Per favore, almeno loro. Anche se poi, pensandoci bene, una delle vie di fuga dal biopic rock comunemente inteso (l’archetipo negativo in questo senso rimane l’orripilante film sui Doors di Oliver Stone, uno che si è vissuto gli anni Sessanta senza far niente per meritarseli) sta forse proprio nel raccontare personaggi non ancora consumati dalla mitologia e beatificati dall’agiografia. Lo dimostrano per esempio pellicole minori ma deliziose come Good Vibrations – dedicata al discografico punk nord-irlandese Terri Hooley – e in un certo senso anche i più celebri I Love Radio Rock e Quasi famosi, con i loro John Peel e Lester Bangs veri o “traslati”. Ci sono tuttavia altri due modi per aggirare il pericolo della banalità e del didascalismo in stile “fiction-Rai-su-Padre Pio”. Uno è quello di affrontare la biografia di un qualche Grande del Rock o del Pop concentrandosi su un particolare periodo o episodio significativo. È il motivo per cui per esempio i Beatles fin qui se la sono sfangata con l’accettabile Backbeat (che si limitava a raffigurarli nel loro periodo amburghese, con il focus sull’amicizia tra John Lennon e Stu Sutcliffe), e grazie al quale Phil Spector è stato dipinto con le adeguate tinte shakespeariane da David Mamet in quello che fondamentalmente è un classico film processuale. L’altro modo consiste nel battere la strada della metafora, dell’ellissi, dell’”esplosione” del personaggio; metodologia non ortodossa che ha reso un ottimo servizio al David Bowie omaggiato (senza essere nominato) in Velvet Goldmine e al Bob Dylan uno e plurimo nel gioco di specchi di Io non sono qui. Il neo-premio Oscar John Ridley (un nome che sembra quasi una canzone dei Byrds: le credenziali Sixties c’erano, mannaggia…) per portare sullo schermo Jimi Hendrix ha scelto una via di mezzo tra queste due direzioni. Non andando, purtroppo, da nessuna parte.
Non sono mai stato un fan talebano di Hendrix. Non sono neanche un suo vero fan. Mi piace la sua musica, ovviamente, e mi ha sempre affascinato la carica di dirompente innovatività che ha innescato in quel periodo storico. Ma non mi sarei certo scandalizzato se la sua breve traiettoria artistica e umana fosse stata raccontata in maniera inusuale e – giustamente, considerando il personaggio e l’epoca – davvero psichedelica. Il problema è che, pur provandoci a evitare i cliché, Ridley fallisce quasi su tutta la linea.
Alla fine, non si capisce bene cosa sia, All is By My Side. Tanto per cominciare, come giudicare un film su Jimi Hendrix nel quale non si ascolta neanche una nota di Jimi Hendrix? Certo, colpa della famiglia del chitarrista che non ha autorizzato l’utilizzo delle sue canzoni, ma è come girare un film su Pelé senza far mai vedere un pallone. Poteva anche essere una sfida interessante, ma insomma, la sensazione fastidiosa è quella del coitus interruptus. Anzi, neanche iniziatus. D’altra parte, dopo aver visto come è raffigurato Hendrix nel film si è tentati di dar ragione ai parenti del caro estinto. Quello che tutte le testimonianze ricordano come un uomo timido ma affascinante, selvatico ma pure intelligente, intuitivo e dotato di humour, è ridotto a una specie di idiot savant che si muove e parla (d’accordo, qui c’entra pure il fetido doppiaggio) come un fricchettone rincretinito appena arrivato dal set di Ecce Bombo. “Cioè, ecco no…io combatto la guerra contro il grigio…cioè, è cosmico, baby”. Agghiacciante. Ma la vera pelle d’oca viene per ragioni ben più serie. In nessuna biografia e in nessuna intervista di colleghi, amici, amiche e amanti (almeno in quelle che ho letto), il musicista americano viene descritto come uno psicotico che picchiava le donne. Esattamente ciò che risulta, invece, in ben due sequenze del film. Sequenze assolutamente gratuite, così come – anche se meno disturbanti – quelle in cui il povero Eric Clapton fa la figura del cicisbeo isterico e invidioso. Se da un lato la contestualizzazione storica è più accurata che in altri film – niente blooper, nomi storpiati o anacronismi da segnalare, una volta tanto; da notare anche la scelta di commenti sonori non scontati (Small Faces, Seeds, Spencer Davis Group) e la somiglianza di alcuni attori con i personaggi storici che ha quasi dell’inquietante (per Chas Chandler, ad esempio, devono aver fatto resuscitare il Chas Chandler vero) – dall’altro non si capisce bene per quali ragioni forzare drammaturgicamente la realtà delle cose, facendo credere che fino al fatidico appuntamento di Monterey Hendrix fosse un poveretto che si dibatteva nel sottobosco della scena musicale della Swingin’ London. Lo vediamo lamentarsi del fatto che i suoi singoli sono fuori dalla top 100, quando già con Hey Joe andò al numero 6 in classifica, e all’inizio del ’67 era in Inghilterra il fenomeno del momento.
Ma non è in questo che sta il limite più evidente del film. E neppure in uno stile registico che, nonostante tutti i suoi vezzi cinefili (parlato fuori sincrono, lunghissimi silenzi, inserzioni di immagini fuori contesto in stile rockumentary di Julien Temple), riesce a mettere in scena una delle congiunture storiche più effervescenti e gravide di cambiamento del ‘900 (l’autunno del 1966!) con una verve degna di una sitcom bulgara degli anni 80.
No, il limite è intrinseco al concetto stesso di “biopic” applicato alla mitologia rock. Che è, appunto, mitologia: un discorso tramandato che più ci si allontana dalla fonte degli avvenimenti più diventa stereotipo avvolto su se stesso. Un film su un qualunque protagonista di questa mitologia, a meno che non intenda scardinarla – ma non è questo il caso – non può far altro che replicare all’infinito gli stessi luoghi comuni, confermare l’ovvio, celebrare il rito. Come se non potesse essere nient’altro che la versione cinematografica di un articolo retrospettivo di “Mojo” (ma con meno lavoro di ricerca, e con un vago aroma di “fake”). C’è una inquadratura che è rivelativa: quella di Jimi appoggiato a una cancellata, con la sua giacca con gli alamari, di fianco al cartello che indica Montagu Place. È la replica di una celebre fotografia del ’67. Ecco, un biopic rock quasi sempre è questo e nient’altro che questo: replica di un immaginario.
In questo senso, non sorprende affatto che sia stato chiamato un musicista di quasi quarant’anni a interpretarne uno notoriamente morto a 27. La somiglianza di André 3000 degli OutKast con Hendrix può sembrare impressionante (in realtà in certi primi piani ricorda Sammy Davis jr. con la parrucca afro) ma è come corrotta dal virus della vecchiaia. È vecchio lui, è vecchia l’ottica con la quale si guarda al passato, è vecchio il rock. C’è qualcosa di morboso nel modo in cui ricostruiamo, oggi, qualcosa che in passato è stato sinonimo di gioventù, cambiamento, mondi nuovi. E fa ancora più impressione se questa visione necrofila e stagnante si applica su un periodo come gli anni Sessanta.
Forse sarebbe ora di smettere di raccontare il passato e provare a concentrarsi sul presente. Forse quello che ci vorrebbe è un bel biopic di chiusura, della durata di sei o sette ore, sul rock in generale. Lo facciamo dirigere a Terence Malick o Lars Von Trier, ce lo guardiamo tutto e poi, finalmente, passiamo ad altro.