RAGAZZE INTERROTTE – Marianne Faithfull e Vashti Bunyan.

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Cosa c’entrano Marianne Faithfull e Vashti Bunyan con Angelina Jolie e Wynona Ryder? Assolutamente nulla, e comunque molto meno di quanto c’entrino una con l’altra. Il senso del titolo proverò a spiegarlo dopo, ma come si può intuire ha a che fare con uno dei non pochi tratti in comune in due biografie solo apparentemente distanti. Vite parallele, quelle di Marianne e Vashti, nonostante la notorietà infinitamente maggiore della prima. Nascono più o meno nello stesso periodo (nel ’45 la Bunyan, nel ’46 la Faithfull); sfoggiano nell’albero genealogico antenati importanti (il secentesco John Bunyan autore del Pilgrim’s Progress nel caso di Vashti – anche se in seguito pare che la musicista abbia negato la discendenza – e Leopold Von Sacher-Masoch in quello di Marianne, che ha invece confermato la consanguineità con diverse sue scelte esistenziali); crescono in ambienti famigliari colti e severi; si ritrovano a bazzicare il milieu artistico e musicale londinese della prima metà degli anni Sessanta, ragazzine ingenue ma ambiziose; vengono scoperte entrambe da Andrew Loog Oldham, il manager dei Rolling Stones più o meno loro coetaneo, affascinato non solo e non tanto dalle voci acerbe delle due cantanti  quanto da altre qualità, che appaiono piuttosto evidenti in qualunque foto d’epoca (è rimasta negli annali la sua descrizione della Faithfull: “un angelo, ma con due tette così”…voilà, le gentilhomme!); esordiscono entrambe su 45 giri con canzoni scritte da Mick Jagger e Keith Richards (Some Things Just Stick In Your Mind e la celeberrima e strappalacrime As Tears Go By).

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Poi, a un certo punto, i loro destini sembrano divergere come più non si potrebbe. Marianne si mette con Mick, diventa la reginetta del jet set alternativo della Londra psichedelica, scrive il testo di Sister Morphine e tempo un paio d’anni finisce in coma in un letto d’ospedale, scream of the ambulance sounding in her ears, dopo un’overdose che assomiglia molto a un tentativo di suicidio. Vashti (che all’epoca si faceva chiamare solo con il nome proprio, di derivazione biblica) invece non ne imbrocca una: fa un paio di singoli con la Immediate di Oldham che finiscono nel dimenticatoio a una settimana dall’uscita, si mette con un fricchettone rintronato e insieme a lui attraversa l’Inghilterra su un carretto trainato da un cavallo in direzione isola di Skye, dove pare che Donovan avesse messo su una comune hippy di poeti e musicisti (ovviamente Donovan, che era pure lui fricchettone ma non così rintronato, se n’era andato da Skye un mese prima che i due ci arrivassero). Quando nel 1970 esce Just Another Diamond Day, primo e per i successivi trentacinque anni anche unico album della Bunyan, Marianne è già sprofondata nell’inferno dei tossici. Homeless ed eroinomane, diventa Marianne F, la ragazza dello zoo di Londra. È qui che le strade delle due donne riprendono a scorrere parallele, anche se lungo vie lontanissime una dall’altra. Entrambe si sentono – lo sono, in realtà – rifiutate da un mondo e una industria pop ancora in pieno fulgore. Cala il buio sulle loro aspirazioni artistiche: quello fosco e angoscioso, da slum dickensiano, di Marianne, e quello un po’ meno opprimente ma certo non esaltante del tran tran casalingo di Vashti, ritiratasi a vita privata. Ragazze interrotte, appunto. Interrotte nel pieno del talento, della gioventù, della bellezza. È questa cesura tra prima e dopo ad accomunarle più di ogni altra coincidenza biografica. La pausa di Marianne durerà molto meno, e la sua seconda vita comincia già con Broken English nel 1979, la cui canzone omonima è ispirata a un’altra ragazza interrotta per le ragioni sbagliate, Ulrike Meinhof. Verranno poi il colpo di fulmine per Brecht e Weill, diversi dischi di ottimo livello e le collaborazioni con alcune delle migliori menti della generazione successiva alla sua (PJ Harvey, Beck, Billy Corgan, Damon Albarn, Jarvis Cocker, Nick Cave).

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Vashti dovrà aspettare il nuovo millennio, e una roba strana chiamata “Internet”: un giorno scrive il suo nome su google, tanto per fare una cosa, e scopre – oltre alle quotazioni folli raggiunte dalle copie originali di quell’album che si era forse persino dimenticata di aver inciso- di essere diventata un culto per ogni musicista freak-alternative-indie-folk sulla piazza. Primo tra tutti Devendra Banhart (niente da fare, povera Vashti: dei fricchettoni non si libererà mai). Dopo un EP con gli Animal Collective, altri suoi insospettabili aficionados, nel 2005 si riaffaccia timidamente all’onore del mondo con un lavoro fragile ma dignitosissimo, Lookaftering, prodotto da Max Richter e con i contributi del succitato barbone Devendra, di Joanna Newsom e di Adem. Con ammirevole coraggio torna addirittura a esibirsi dal vivo, cosa che aveva fatto in rarissime occasioni anche ai suoi vent’anni. Poi un’altra interruzione, durata quasi un decennio. E ora eccola di nuovo con Heartleap, il suo ultimo album. “Ultimo” nel vero senso della parola, almeno stando alle dichiarazioni della stessa autrice.

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Se c’è un tema che accomuna, sottotraccia, il disco della Bunyan a Give My Love to London della Faithfull, è proprio quello di “fine”. Un concetto forse non così angosciante come potrebbe apparire – in inglese suona meglio: closure -e ognuno in fondo può elaborarlo nel senso che preferisce. Metaforico, sentimentale, storico. E appunto, anche come sipario che cala su due carriere, diversissime eppure speculari nella loro circolarità. Si sono messe in viaggio nello stesso momento, Vashti e Marianne, e forse sono anche arrivate alla meta nello stesso momento. Non possiamo sapere se pure la seconda ha intenzione di chiuderla qui, ma – anche non volendo pensare alla malattia che ha dovuto affrontare in tempi recenti – c’è comunque un pathos da ultimo atto che pervade tutto il lavoro. E se fosse davvero così, sarebbe un addio in grande stile. Una manciata di canzoni di una intensità emotiva senza paragoni persino nel tormentato passato faithfulliano. Canzoni nelle quali si avverte compassione ma non consolazione; fallibilità umana e contemporaneamente aristocratico distacco. L’equilibrio perfetto. Nel pezzo che apre e dà il titolo al disco – una caustica dichiarazione d’amore per Londra ironicamente scritta insieme a un americano (Steve Earle) – Marianne cita esplicitamente un brano dall’Opera da tre soldi brechtiana (e quindi anche la se stessa di qualche decennio fa) raffigurandosi come Pirate Jenny di ritorno in una città ormai collassata e in rovine. Londra è sempre stata un set formidabile per l’Apocalisse, e qui vengono in mente tanto le litografie del Great Fire del 1666 quanto sequenze di 28 giorni dopo. Gusto per il catastrofismo a parte, il senso del brano è forse da ricercare su un piano più intimo e profondo. La Londra che Marianne saluta sarcasticamente da un nave pirata mentre la vede bruciare è la Londra che la divorò, la masticò e la risputò fuori nei Sixties, la Londra per cui si è aggirata come un fantasma per troppi anni.  Un saluto sardonico anche al suo passato, dunque.

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Nei dischi degli ultimi vent’anni spesso l’artista ha interpretato il ruolo di “Marianne Faithfull”, giocando (sempre con molta classe) con i cliché che ne avvolgono la figura. In Give My Love to London semplicemente è Marianne Faithfull. Una donna di settant’anni, che esibisce fieramente la “s” sibilante da anziana, che riflette sulle storie passate senza recriminare, che non fa sconti a nessuno (lei in primis) e che non ti racconta che la vita e l’amore sono le cose più belle che esistono. L’ottimismo dei Sessanta è un reperto archeologico non più utilizzabile, lontano e dimenticato come la Marianne fanciullesca e vagamente preraffaellita di quel periodo. Al mondo ognuno deve cavarsela da solo,  e non è detto che sia necessariamente un dramma (l’ultima traccia del disco, significativamente, è un brano di Hoagy Carmichael intitolato I Get Along Without You Very Well). Emergono qui e là una gravità e una aggressività ferina quasi alla Diamanda Galas (come in Sparrows Will Sing, firmata Roger Waters, True Lies e la cupissima Mother Wolf), mentre in altri casi – la ballata pianistica More or Less, di una malinconia quasi intollerabile – si avverte chiaramente l’influsso dell’amica Polly Jean, soprattutto quella dell’elegia all’Inghilterra matrigna di Let England Shake. Ma c’è anche l’ironia da gran dama della controcultura, come quando impersona la musa di Leonard Cohen nella cover di Going Home.

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Se Marianne Faithfull ha scelto nuovamente di circondarsi di collaboratori pregiati – oltre ai nomi già citati spiccano quelli di Adrian Utley dei Portishead, Ed Harcourt, Ben Christophers, Mick Jones, Anna Calvi e di quasi tutti i Bad Seeds (manca il Capo, che però ha regalato alla cantante Late Victorian Holocaust) – Vashti Bunyan ha fatto tutto in splendida solitudine. Le canzoni sono nate nell’arco di sette anni, e poi registrate in casa, rifinite, accudite come dei bambini. Un vero parto, per certi versi doloroso come tutti i parti, e non a caso uno dei brani centrali del disco si intitola Mother. Canzoni fatte di niente, con la voce ancora splendida della Bunyan – questo è un disco nel quale la musicalità è sottolineata non solo dalle parole, ma addirittura dalle sillabe -adagiata su poche note di tastiere, synth che suonano come carillon ottocenteschi, archi che sembrano una risacca di onde in lontananza, laggiù sullo sfondo. In effetti c’è un elemento “aquatico”, marino, che ricorre anche nei titoli dei brani – Across The Water, Jellyfish, Shell – e che conferisce un tono ancora più soffuso ed ovattato alla musica. Heartleap è l’altro lato della medaglia di Give My Love To London: laddove la Faithfull è fisica, quasi luciferina, Vashti è eterea, la custode di un giardino zen. Là una tempesta di sentimenti, qua una calma immobile e pacificante. Come un mantra dischiude il suo significato solo con la ripetizione costante, Heartleap rivela la sua straordinaria bellezza solo dopo diversi ascolti. In tempi come questi, in cui la nostra soglia di attenzione non arriva a coprire neppure un video su youtube, suona quasi come un suicidio artistico prima ancora che come una sfida all’ascoltatore. Ma Vashti Bunyan, lo si è detto più su, è una donna coraggiosa. Oltre che meravigliosamente fuori dal tempo.

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C’è un’ultima cosa che Marianne Faithfull e Vashti Bunyan hanno in comune, ma ha ovviamente un significato solo ed esclusivamente per il sottoscritto. Ho avuto infatti la fortuna di intervistare entrambe, una decina di anni fa. In entrambi i casi si è trattato di conversazioni tra le più emozionanti della mia carriera di intervistatore. Vashti volle essere chiamata al telefono a mezzanotte in punto, perché “a quest’ora i pensieri e le parole scorrono meglio”. Di Marianne Faithfull ricordo invece la voce, quella voce sgualcita e ipnotica, il clic quando si accendeva la sigaretta (“qualche vizio si deve pur mantenere”) e lo sbuffo di fumo, la risata squillante quando raccontava di essere andata a vedere una mostra di quadri di Ron Wood e di non aver avuto il coraggio di dirgli quanto fossero orribili.

In un anno musicale fatto di grandi dischi (e grandi ritorni) al femminile, gli album di Marianne Faithfull e Vashti Bunyan sono cose preziose, regali da custodire gelosamente. Due donne che hanno molto vissuto, ognuna a modo suo. Donne capaci di riflettere sul tempo in modo non banale e di illuminare, anche solo per una quarantina di minuti, una quotidianità nella quale non si riflette più su nulla. Due donne bellissime ancora oggi. Alla faccia di Andrew Loog Oldham.

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3 thoughts on “RAGAZZE INTERROTTE – Marianne Faithfull e Vashti Bunyan.

    • ma va, non c’è niente di imbarazzante. anzi, è la cosa bella dell’essere appassionati di musica, il poter scoprire ogni giorno qualcosa che non si conosceva (vale anche per me, ovviamente)

      • Verissimo Carlo ! La musica unisce le persone, le stimola a tenere orecchie e cervello allenati !

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