“ONE DAY IT’S GONNA BE MASSIVE…” – Northern Soul e l’arte di raccontare la youth culture.

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Keep the faith. Era questo lo slogan preferito dai fedeli della chiesa Northern Soul. Stava scritto sul logo più celebre del periodo, sui muri dei quartieri proletari in qualche buco infame dell’Inghilterra settentrionale o sul torace di decine di all-nighters che lasciavano litri di sudore sulle piste del Casino di Wigan o del Mecca di Blackpool o di un qualunque “youth club” di allora. Keep the faith. Crederci, crederci sempre. Continua a ballare, lascia andare la musica e qualcosa di buono verrà fuori. Un principio al quale è rimasta fedele anche Elaine Constantine, oggi fotografa e regista di valore e decenni fa giovanissima modette innamorata del Northern Soul. Il suo sogno in tutti questi anni era girare un film su quei giorni gloriosi, ma non la solita fuffa nostalgica per cinquanta-sessantenni con le giunture incriccate e a rischio infarto ogni volta che parte There is a Ghost in my House. No, doveva essere qualcosa di vivo, di pulsante, che trasmettesse tutta l’energia, la carica ormonale e l’idealismo (perché sì, c’era anche quello) di una cultura giovanile che celebrava il momento senza preoccuparsi del futuro – come ogni vera cultura giovanile dovrebbe sempre fare – ma che senza volerlo ha influenzato tante cose venute dopo. Elaine si è impegnata la casa e l’eredità del padre, ha lanciato un crowdfunding cui in memoria dei vecchi tempi ha partecipato un esercito di old northerners, ha persino aperto un club a Islington nel quale per più di un anno ha insegnato a centinaia di giovani comparse – nonché agli stessi protagonisti – come si ballava su al Nord. Ma alla fine ce l’ha fatta. Northern Soul è uno dei film a tema musicale più belli, elettrizzanti e poetici (il finale farebbe piangere pure un hooligan del Millwall) degli ultimi anni. In Gran Bretagna è uscito a metà ottobre, senza aver fatto la solita trafila dei festival che in questi casi un po’ aiuta, e nonostante la programmazione limitata a pochi giorni, in cinema selezionati e a ridosso dell’uscita in dvd (ormai una triste prassi per film come questo) è stato un successo inaspettato. Un po’ come succedeva all’epoca quando si trattava di andare a ballare, i fan si sono spostati in massa da una città all’altra alla ricerca delle poche sale che lo proiettavano. Un tizio ne ha addirittura affittata una, per lui e i suoi amici, solo per poterlo vedere. Keep the faith, appunto.

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Northern Soul è un film che ha lo stesso andamento di quei meravigliosi 45 giri dimenticati degli anni 60 che erano il carburante, la ragion d’essere, l’alpha e l’omega del movimento (perché il Northen non è mai stato, contrariamente alle definizioni superficiali che spesso si leggono in giro, un “genere”: il genere era il soul, punto). Canzoni come quelle di Edwin Starr, Melba Moore, Don Thomas, Charlene & The Soul Serenade, Jimmy Burns, Joe Tex, Toby Legend, Johnny Howard, Originals e il resto della incontenibile, strepitosa colonna sonora (54 pezzi, e non uno che non ti faccia ringraziare di essere vivo). Partenza quasi in sordina, magari con una melodia in minore al piano, ma intanto quei bassi che entrano di soppiatto cominciano a suggerirti che da qualche parte c’è qualcosa che bolle, pronto a esplodere. E infatti poi arrivano le rullate, i fiati e le parti corali, in un tripudio di gioia e liberazione dei sensi. Poi c’è il bridge drammatico, inevitabile. E infine il distendersi nuovamente nella melodia iniziale, impregnata di una nuova consapevolezza. Oppure lo sfumare del ritornello, ad libitum, perché da lì non si torna più indietro.

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Sotto molti aspetti, Northern Soul è un classico film di formazione pop. Gli inglesi sono dei maestri del genere, e l’arco narrativo in fin dei conti è lo stesso di un Billy Elliot o di un The Boat that Rocked o di un Breakfast on Pluto o di decine di altre pellicole nelle quali il coming of age dei protagonisti è incastonato in un momento sociale e culturale specifico. Che poi è sempre quello: il ventennio che va dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80. La differenza la fa la capacità di raccontare un’epoca e una cultura – una delle tante culture di quel periodo -senza eccedere con l’effetto didascalia (cosa nella quale il cinema italiano è campione del mondo). Ma soprattutto la differenza la fanno le facce. E quelle dei protagonisti di Northern Soul sono perfette. Soprattutto quella di Elliot James Langridge ovvero John, il teenager intorno a cui ruota la vicenda. A vederlo sembra una sorta di Richard E. Grant giovane (per chi non lo conosce: è il signore a destra nella foto di copertina di questo blog). Ma a un certo punto, quando prova a torso nudo davanti allo specchio i passi e i movimenti di ballo è pure il ritratto sputato di Bruce Lee, e l’associazione ha un suo senso visto che uno dei modelli dei giovani animali da dancefloor era proprio lui. Comunque una faccia assolutamente e totalmente working class. Come quella dell’amico con cui condivide anfetamine, serate da dj, lavori di merda, dischi rari e sogni; quella della ragazza di cui si innamora e che gli sembra inaccessibile; quelle dei ragazzi con cui ballano. Innocenza e disperazione, cattiveria posticcia e vulnerabilità assoluta, consapevolezza che quello che desideri nella vita dovrai strapparlo con i denti ma anche la certezza che fino a quando continuerai a crederci sarai untouchable.

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E poi c’è tutto il resto. Il nomadismo da un club all’altro. La passione per le rarità su vinile, i mercatini dove strapparsi un white label o un 45 giri dimenticato da dio e dagli uomini che facciano deflagrare la pista (il Northern Soul ha rappresentato l’unico caso in cui il collezionismo discografico ha avuto un senso e un ruolo attivo nella formazione di una sotto-cultura giovanile, invece di essere quel triste rito masturbatorio che è quasi sempre). Ci sono gli scazzi che solo i teenager possono avere, e peggio ancora possono avere solo i teenager che stanno mettendo dischi assieme. Ci sono le droghe e la violenza. Ci sono splendide sequenze collettive al Wigan Casino, che ovviamente non è quello vero dato che quest’ultimo è stato tirato giù nel 1981. C’è una pronuncia inglese agghiacciante e incomprensibile. Ma soprattutto c’è quel senso di condivisione, quel “if the kids are united” che eleva la storia personale a spaccato di un’era.

E l’ho già detto che il finale ti strizza il cuore?

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A questo punto arriva la solita domanda retorica e da provinciali inaciditi. Perché gli inglesi riescono a raccontare storie del genere e noi no? La risposta automatica è: perché noi una cosa come il Northern Soul non l’abbiamo avuta. Vero. Però abbiamo avuto altro, anche restando confinati nella fenomenologia pop-giovanile. Magari non così decisivo e iconico, ma si tratta pur sempre di storie che nessuno ha mai raccontato (al cinema). Niente soul del nord, ok. Ma per esempio abbiamo avuto la dance del nord-est, gli “afro” ecc. Nel suo piccolo, qualcosa di simile al northern. Ma non solo: saltando avanti e indietro nel tempo, ci sono stati i beat e gli hippy nostrani tra i ’60 e i ’70, il punk e l’hardcore negli ’80 (ma anche il dark-wave, e la neo-psichedelia), le posse e l’hip hop nei ’90. Fenomeni di aggregazione, matrici di nuovi codici estetici, e serbatoi formidabili di materiale narrativo. A un ipotetico – e state tranquilli: inesistente – produttore che volesse cimentarsi nell’impresa, segnalo anche dei testi che dentro hanno già sceneggiature potenziali. Per la dance Discoinferno di Fabio De Luca e Carlo Antonelli (ISBN, 2006); per i beat-hippie-yippie-controcultura Underground Italiana di Matteo Guarnaccia (Shake, 2011); per il punk e l’hardcore Costretti a sanguinare di Marco Philopat (Shake, 1997) e I ragazzi del mucchio di Silvio Bernelli (Sironi, 2002); per il dark Creature simili di Simone Tosoni e Emanuela Zuccalà (Agenzia X, 2013); per la neo-psichedelia Eighties Colours di Roberto Calabrò (Coniglio, 2010); per le posse Storie di assalti frontali di Militant A (DeriveApprodi, 2000). Sono solo i primi titoli che vengono in mente, ce ne sono sicuramente molti altri. Ecco, lì dentro ci sono delle storie. Storie diverse. Storie come quella di John. Ma il nostro rapporto con tutto ciò che i giovani si sono inventati e che in un momento o in un altro ha remato contro la corrente – culturale – in questo paese è geneticamente quello della parodia e dell’instant movie. Sappiamo auto-rappresentarci solo in questo modo. Storicamente non ci sono mai state le Elaine Constantine, ma gli Alberto Sordi che fa il capellone con la parrucca e i Vanzina che mettono in scena i paninari.

Quindi rassegniamoci. Per i prossimi anni avremo, ancora e sempre, film su trentenni mai cresciuti, quarantenni in crisi e se proprio dice bene qualche terrorista.Ma chissà, forse prima o poi anche qui si farà un film come Northern Soul. Sperarci in fondo non costa nulla.

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