COURTNEY BARNETT – Slacker sarai te.

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La scheda wikipedia su Courtney Barnett inizia proprio come una canzone di Courtney Barnett. “Born 1987 or 1988”…ma come? Neanche fosse un calciatore del Ghana. Il fatto è che uno si immagina proprio lei che alla domanda “quando sei nata?” risponde “boh: 1987, o 1988…”. Poi scrolla le spalle, scuote il ciuffo e prova un riff di Lou Reed alla chitarra. Ha questa meravigliosa capacità, Courtney Barnett, di irradiare un beato, assoluto, intangibile menefreghismo, eppure nonostante questo di suscitare l’associazione automatica con aggettivi gne gne – tipo “deliziosa” o “adorabile” – che sembrano nati apposta per descrivere una buffa creatura come questa. Per non parlare di quell’altro abominio lessicale da critichini musicali di cui si abusa in qualunque articolo che la riguardi: “slacker”. Che in teoria dovrebbe essere l’attitudine pressapochista e da imbranati nei confronti delle cose della vita, compresa la musica. Niente di più falso, parlando di lei (ma identico discorso valeva per i primi per i quali venne coniato il termine, cioè i Pavement). Se uno le ascolta attentamente, le canzoni di Courtney Barnett, capisce subito quanta rifinitura, quanta attenzione ai particolari, quante prove, quanta musica metabolizzata stiano dietro a quelle filastrocche apparentemente sbilenche e verbose. Se uno le ascolta attentamente, d’altra parte, ammetterà pure che in giro al momento c’è pochissimo che risulti più divertente, più fresco, più eccitante, più arguto, più figo, più…ok, lo dico: adorabile e delizioso di quelle canzoni.

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Sometimes I Sit and Think, And Sometimes I Just Sit, primo vero album per la ragazza australiana (finora c’erano stati solo due EP, poi riuniti assieme), è in assoluto il mio disco preferito di questo primo – peraltro eccellente – quarto di 2015. Il parametro cui mi affido per stabilirlo è molto semplice: il numero di ascolti ripetuti. Sometimes I Sit ecc ecc. è un lavoro che ti obbliga a rimetterlo su in loop. Non perché sia particolarmente complicato – è esattamente il contrario – ma perché è contagioso in un modo persino ridicolo. In realtà, sotto la superficie liscia di questo rock’n’roll al limite dello spoken word ci sono increspature che si colgono solo dopo un po’. All’inizio si rimane irretiti sotto il tiro della mitragliatrice spara-parole barnettiana, solo dopo si cominciano a cogliere le sfumature nella voce apparentemente scazzata in corrispondenza di passaggi significativi nei testi, e lì si intuisce quanto il mondo di Courtney sia molto più articolato di quel che sembra. Ci sono del resto alcuni elementi che ricorrono, e fanno quasi da paletti indicatori. Ad esempio l’indeterminatezza o i non sequitur con cui si chiudono diversi brani, il che può essere sia un ricercato effetto di spiazzamento che lo specchio di una genuina confusione. Qualche esempio: “I’m a fake, I’m a phoney I’m awake I’m alone I’m lonely…I’m a scorpio” (Pedestrian at Best), “what do I know anyhow?” (Dead Fox), “All I wanna say is…” (Kim’s Caravan), “I wanna go out but I wanna stay home” (Nobody Really Cares If You Don’t Go to the Party), “lover, I’ve got no idea” (Boxing Day Blues). Per non parlare del modo in cui viene concluso il monologo interiore, tutto incentrato sulle proprie ossessioni, di Small Poppies: “una volta mi odiavo ma ora penso di stare bene/ho sognato di ucciderti con un attaccapanni”.

Forse è per passaggi come quello che in tanti tirano in ballo l’orrido “slackerismo”, e si citano come riferimento i Nirvana. Altri motivi non ne vedo, men che meno dal punto di vista musicale. Mi stupisce sempre, quando leggo certe recensioni, l’incapacità di molti di accettare il fatto che sia esistita della musica anteriore al 1991. I punti di riferimento della Barnett, almeno i principali, stanno lì. Che senso ha parlare di Sharon Van Etten o Angel Olsen, per dire, al di là del fatto incontestabile che sono tutte giovani donne che suonano nello stesso periodo storico? E che c’entra Kurt Cobain, al di là del fatto altrettanto incontestabile che pure lui suonava la chitarra? Va a sapere. Quando poi bastano i primi venti secondi del pezzo d’apertura, Elevator Operator (titolo uguale a quello di un brano di Gene Clark: sicuramente è casuale, ma mi piace pensare di no) per cogliere al volo uno dei modelli ispiratori. È quell’eterno tredicenne in overdose di milkshake chiamato Jonathan Richman. Quello del primo disco dei Modern Lovers, soprattutto. Il ritmo anfetaminico e squadrato – Bo Diddley + Velvet, l’addizione perfetta – con cui si narra questa impagabile storiella urbana ha lo stesso tiro di Roadrunner del vecchio Jojo. Il protagonista è un ventenne che andando al lavoro e sbocconcellando la sua colazione sulla metropolitana decide che basta, ne ha fin sopra i capelli della sua prigione quotidiana. Il suo sogno è quello di fare il ragazzo dell’ascensore, e proprio in ascensore incontra una spaventosa milf piena di botox, con la “pelle così tirata che si vede lo scheletro”, “una borsa di coccodrillo”, “un ciondolo di tartaruga sul petto”, “l’alito profumato alla Vickers”. Insieme raggiungono il tetto del grattacielo, e la donna a un certo punto pensa che il ragazzo voglia buttarsi di sotto: “Don’t jump little boy, don’t jump off that roof! You’ve got your whole life ahead of you, you’re still in your youth. I’d give anything to have skin like you.”. Ma lui vuole solo fare l’elevator operator, mica ammazzarsi. La capacità descrittiva racchiusa nei particolari è fenomenale, e l’attacco nel quale si presenta il protagonista, sorta di well respected man anzitempo – “Oliver Paul, twenty years old, thick head of hair worries he’s going bald. Wakes up at a quarter past nine, fair evades his way down the 96 tram line. Breakfast on the run again, he’s well aware he’s dropping soy linseed vegemite crumbs everywhere” – non ricorda forse Ray Davies?

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Nomi grossi. E allora facciamo subito il più grosso di tutti e leviamoci il dente. Il flusso di coscienza di Pedestrian at Best fa venire in mente il Bob Dylan di tirate logorroiche come Subterranean Homesick Blues. Ok, quasi. È più che altro una questione di tecnica di scrittura, che Courtney padroneggia ottimamente. Ci sono rime ispirate (“give me all your money and I’ll make some origami, honey”), allitterazioni brillanti (“I must confess I’ve made a mess of what should be a small success but I digress at least I’ve tried my very best I guess”, “erroneous, harmonious, I’m hardy sanctimonious”), abbinamenti che in due parole composte definiscono en passant una generazione (“under-worked and over-sexed”). Tutto questo, ovviamente, a una velocità di crociera garage-punk che non molla per un secondo. Neanche Allen Ginsberg riuscirebbe a starle dietro con i cartelli.
Poi c’è un altro aspetto interessante. È l’alternanza – che spesso diventa contrapposizione – tra la quotidianità delle situazioni e il surrealismo nel quale sfociano certi train of thoughts della Barnett. La “poesia del quotidiano” è una formula scontata, ma non saprei come descrivere in altro modo il testo di un brano come Depreston, incentrato su un rituale pallosissimo cui tutti ci sottoponiamo varie volte nella vita come l’andare a vedere un appartamento da affittare. La protagonista (che poi è sempre lei, Courtney) arriva nel posto – un “Californian bungalow in a cul-de-sac” – e mentre la padrona di casa le magnifica l’alloggio lei non riesce a non far vagare la mente, ricostruendo vite possibili a partire dagli oggetti. “Then I see the hand-rail in the shower, a collection of those canisters for coffee, tea, and flour, and a photo of a young man in a van in Vietnam. I can’t think of floor-boards anymore, whether the front room faces South or North and I wonder what she bought it for… “. In Dead Fox invece la troviamo a fare la spesa, con l’amica Jen che (qui lo metto in italiano perché è più divertente) “insiste nel voler comprare verdura bio, all’inizio ero un po’ scettica perché in fondo un po’ di pesticidi non fanno male a nessuno. Non avendo mai molti soldi prendo quello che costa meno al supermercato ma è tutto gonfiato di schifezze, un amico mi ha detto che nelle mele ci mettono la nicotina”. Non quel che si dice una coscienza ecologica sviluppatissima, ma è proprio quello il bello. L’io narrante di Courtney Barnett non è mai paternalistico o predicatorio, è fondamentalmente un cazzone disinformato come tutti noi. Ma poi – cosa che non tutti noi sappiamo fare – è in grado di tirarti fuori immagini poetiche strepitose come in Kim’s Caravan, quando racconta di “una foca morta sulla spiaggia” e di un vecchio che dice “l’avevo già salvata tre volte questa settimana, suppongo volesse davvero morire”. Qui risuona una sorta di fatalismo alla Vonnegut, e a pensarci bene la chiosa a quasi tutte le canzoni della Barnett potrebbe essere un rassegnato “così va la vita” che non risolve nulla ma in fondo spiega tutto. Naturalmente questo vale anche in situazioni comiche – la ragazza ha un grande senso del comico; non dell’ironia, e meno male perché della fottuta ironia non se ne può davvero più – come quella descritta in Aqua Profunda!, in cui lei nuota in piscina e cerca di impressionare un tipo nella corsia di fianco, rischiando però di annegare a causa della sua endemica “mancanza di atletismo”. Povera, goffa Courtney.

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Quindi, in definitiva, di cosa parlano le canzoni di Courtney Barnett? Di lei, sostanzialmente, ma senza quella tendenza a rimirarsi l’ombelico spirituale tipica di quelli che una volta si chiamavano “singer/songwriters”. Parlano della meravigliosa assurdità inscritta nella normalità, o forse il viceversa. Di guardare il giardino e non decidersi a tagliare l’erba, o anche solo a dare una svolta alla propria vita. Di infiltrazioni d’acqua sul soffitto tra le quali spunta un Gesù accigliato. Della infinita tristezza del giorno di Santo Stefano. Di foche spiaggiate e verdure bio. Courtney Barnett non la smena con tutto quello che sembra ossessionare così tanto cantautorato “indie”, femminile o maschile che sia: cose tipo il post-moderno, il sesso, le gender-politics, i feticci pop, le storie d’amore finite male, i soliti cliché. Si limita (?) ad applicare il suo sguardo un po’ disincantato e un po’ spaesato alla realtà, traducendolo in canzoncine irresistibili e dando una possibile nuova chiave per interpretarla, quella realtà. O forse per sopportarla.

Recentemente ho letto un bellissimo romanzo di Ben Lerner, “Nel mondo a venire”. Mi rendo conto che queste connessioni sono sempre un po’ arbitrarie e casuali, ma mi è venuto spontaneo accostarlo a questo disco. Lo scrittore americano, poco più vecchio della Barnett ma comunque appartenente alla stessa generazione sfasata, fa in forma letteraria quello che Courtney fa in forma rock’n’roll: provare a ricostruire una visione del presente partendo dalle cose, dalle persone che ci stanno attorno, dalla quotidianità. Magari per intravedere persino un futuro. Una nuova forma di pensiero (o linguaggio) debole, se vogliamo, ma a modo suo molto efficace. Confortante, ma non consolatorio. Cito dal risvolto di copertina: “E’ una ricerca ambiziosa, soprattutto in un’epoca in cui immaginare il futuro è diventato difficile, e questa difficoltà cambia profondamente il nostro rapporto con il presente e con il passato, con le persone che ci stanno accanto. Allora bisogna guardarsi intorno, scrutare la città, le sue strade, i suoi abitanti, con lo sguardo consapevole della  storia e della complessità, col gusto dell’esploratore che ispirato dal poeta Walt Whitman si nutre nelle sue peregrinazioni dello spettacolo della moltitudine e della pienezza”.

Ma del resto, come direbbe Courtney Barnett, what do we know anyhow?

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