TAME IMPALA – In difesa della specie psichedelica

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Cinque anni fa mi capitò di recensire il primo disco dei Tame Impala, Innerspeaker. Non ricordo parola per parola quello che scrissi, ma certo quelle 2500 battute non erano esattamente un modello di sobrietà e di distacco critico. Il fatto era – è – che la psichedelia mi è sempre piaciuta da morire. Da che ricordo di avere le orecchie è uno dei miei generi musicali – posto che sia etichettabile in questo modo rigido, forse sarebbe meglio dire “attitudine” – preferiti in assoluto, e probabilmente se sottoponessi tutte i miei articoli a uno scanning lessicale tra i termini più usati verrebbero fuori oscenità tipo “lisergico”, “acid”, “psych”. E quindi come potevo non inginocchiarmi, tipo pastorello di Fatima davanti alla madonna (australiana), ascoltando un disco come quello? Mi sembrava ci fosse dentro tutto, o quasi, quello che mi piaceva, psichedelicamente parlando. Nella recensione, saltabeccando tra i decenni, citavo nomi come Pretty Things (che non sono affatto un modello dei Tame Impala, ma SF Sorrow è sempre un bel titolo da scrivere), quasi sicuramente i Beatles di Revolver (e vabbè), i Rain Parade (le backwards guitars, quelle cose lì) e persino, credo suggestionato dalla provenienza australe del gruppo, i Moffs. Ecco, l’ultimo nome è indicativo. Non del retroterra di Kevin Parker (che suppongo non abbia la minima idea di chi siano i Moffs), ma del mio. Per me il rock psichedelico è sempre stato, primogeniture Sixties a parte, e sempre dovrà essere qualcosa di irrimediabilmente, ineluttabilmente underground. Una roba un po’ da nerd e un po’ da esploratori coraggiosi (e non sempre i primi sono gli ascoltatori e i secondi quelli che suonano). Però dai…i MOFFS, dio santo. Per carità: bel gruppettino anni 80, che porto nel cuore per tutta una serie di ragioni (la principale è una canzone favolosa chiamata Another Day in the Sun) ma pensare che possano essere un’influenza per chicchessia venticinque anni dopo è abbastanza ridicolo. Però era esattamente così che vedevo i Tame Impala nel 2010: un bel gruppettino per noi psych-otici all’ultimo stadio, che dopo due anni avrebbe fatto un altro disco simile al primo ma un po’ meno bello, cinque anni dopo un terzo disastroso e dieci anni dopo saremmo andati a vederli suonare davanti a quindici spettatori, implorandoli di fare solo i pezzi del primo album.

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(Tame Impala)

E invece. Il successo trasversale del sucessivo Lonerism, suppongo dovuto esclusivamente a una canzone (Feels Like We Only Go Backwards, ovviamente), mi spiazzò. Non essendo – per le ragioni di cui sopra – uno che pensa che la psichedelia possa mai diventare oppio (o acido) per le masse, mi chiedevo quale fosse l’interruttore nascosto scovato da Kevin Parker. La risposta di chi ne capisce era: è una questione di suono. Perché sì, è psichedelia, ma con una produzione contemporanea. Ah, ok. Ricevuto. E infatti proprio quelle cose lì – il suono, la produzione –  sono diventati il perno della discussione intorno al terzo disco degli Impala. Che come tutti i terzi dischi – difficili per definizione – delle band di buon successo e per qualche strana ragione sufficientemente trendy da giustificare copertine di riviste, leak farlocchi e accanite discussioni in rete a colpi di “Mark Ronson”, “Daft Punk”, “Moroder”, “Bee Gees” e “techno-pop” (il me stesso di cinque anni fa è svenuto, nel frattempo), sta polarizzando le opinioni. Con discreta prevalenza, mi pare, di chi sta usando il bastone con la punta ferrata. Ridimensionare le band per cui prima si sprecavano i superlativi, o peggio ancora urlare al tradimento, è uno degli sport preferiti degli appassionati di musica, tanto più in tempi in cui la soglia di attenzione si è azzerata e il tempo riservato a un disco arriva a malapena a quello della sua durata (non sempre). La cosa però qui mi sorprende ancora di più dei peana sciolti per Lonerism, più che altro perché Currents a me piace tantissimo. Lo sto mandando a ripetizione, in questi giorni in cui mi sto liquefacendo per il caldo come la superficie raffigurata sulla sua copertina, e a ogni ascolto mi si rivela sempre più ricco di idee e di aperture melodiche. Penso che sia la cosa migliore che i Tame Impala/Kevin Parker abbiano fatto fin qua – sì, meglio anche del mio adorato Innerspeaker – e insomma non capisco le facce storte e i de profundis, anche da parte di gente a cui riconosco grande competenza e spesso con gusti simili ai miei.

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(Tame Impala)

Le critiche a Currents mi pare girino intorno a due argomenti, non so quanto collegati tra loro. Il primo è il fatto che manchino le canzoni, che sia tutto suono e niente scrittura (ma come? non era il benedetto suono la cosa per cui piacevano tanto?). Il secondo è che la musica dei Tame Impala abbia tagliato i ponti con mamma psichedelia, e che la sbornia di Parker per dance, elettronica, club culture e soprattutto il famigerato techno-pop degli ’80 abbia avuto un effetto devastante sulla qualità dei pezzi. Partiamo da quest’ultimo punto. Più facile da confutare, semplicemente perché è un non-problema. Oddio, potrebbe esserlo. Tastiere, synth, riverberi, ritmi pre-programmati, vocoder, temo persino il synclavier (!) sono dappertutto. E non è solo questione di strumentazione, per lo più vintage o finto-vintage, ma anche di costruzione dei pezzi. Quando parte, The Moment sembra esattamente Everybody Wants to Rule the World dei Tears For Fears, ma tranquilli che c’è pure di peggio. Fantasmi di Nik Kershaw, ombre di Howard Jones, spettri dei Level 42 più spaventosi di quello di Banquo. E qual è quel pezzo degli Wham (o è Kylie Minogue?) citato in The Less I Know the Better? Meno ne so, meglio sto. Comunque sia: tutta roba che all’epoca mi faceva assolutamente schifo. Ora, non è che l’abbia recuperata – odio i revisionismi, sia in positivo che in negativo – ma posso, come dire, concepire il fatto che sia esistita, e che qualcuno abbia oggi voglia di appropriarsene. Questo al di là del senso di appartenenza generazionale che in fondo, dopo tutti questi anni, mi fa provare tenerezza persino per certi esponenti del pentapartito, figuriamoci per i synth-popper con le pettinature a culo d’anatra. Un aspetto che invece non sopporto più di quel periodo, che tuttavia è rimasto come una sorta di tic mentale in chi si è formato musicalmente in quegli anni, è la voglia di parrocchietta. L’esigenza di separare generi, stili, approcci con righe nette come i confini dell’Africa coloniale. Non era concepibile, a quei tempi – e forse sì, la cosa in quel contesto storico aveva anche un suo senso – che uno potesse suonare psichedelia e poi passare alla dance, o al pop elettronico. Era un tradimento, un’apostasia. Il fatto è che siamo nel 2015, non nel 1985. E Kevin Parker, che presumo sia nato quando io andavo a comprare i dischi dei Moffs, come tutti i musicisti della sua generazione queste distinzioni in testa non le ha. La storia della musica rock pop ecc. è per lui (loro) un enorme self service, dai cui scaffali puoi prendere quello che ti serve sul momento per il tuo bricolage. Ed è normale, è giustissimo che sia così. L’importante è come assembli questo materiale, che qualcuno può giudicare scadente. D’altra parte, Interstellar Overdrive non era ispirata al tema di “Steptoe & Son”? Non credo però che nessuno lo abbia fatto pesare a Syd Barrett. E qui torniamo alla questione psichedelia o non-psichedelia. La nuova musica di Parker e dei Tame Impala è ancora definibile con quella parola? Il dibattito mi interessa relativamente, ma se devo dare una risposta schiaccio il tasto in technicolor e dico sì, assolutamente sì. Proprio perché la psichedelia è una forma aperta, un modo di fare musica – come direbbe il mio amico John Vignola – espansivo. E anche se un pezzo come Let it Happen ha molto più a che fare con gli Air e Caribou (così, per dire) che con i Quicksilver o i Tomorrow..beh, lascia che accada. Relax and float downstream, come diceva il tipo a cui Parker ha “campionato” la voce (in certi momenti l’evocazione lennoniana è persino inquietante). L’importante è seguire il flusso. E non c’è dubbio che la musica in gran parte di Currents fluisca e faccia viaggiare come deve fare la miglior psichedelia. Una psichedelia le cui droghe odierne sono non tanto l’Lsd o l’eroina quanto la vaghezza esistenziale e dei sentimenti (Love Paranoia), la confusione riguardo il proprio posto nel mondo (New Person Same Old Mistake), la nostalgia elevata a feticcio (Past Life). E poi, se la psichedelia moderna è roba mortifera e pallosa come quei cloni venuti male degli Spacemen 3 o degli Hawkwind che infestano la scena (non so voi, ma io non sono mai riuscito a vedere un concerto degli Wooden Shjips dall’inizio alla fine), beh allora datemi Mark Ronson e Kendrick Lamar tutti i giorni prima e dopo i pasti. Con un po’ di Tame Impala.

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(Tame Imp…ah no, questi sono i Moffs)

Quanto al secondo corno del dilemma (“non ci sono le canzoni!”) la risposta sta solo nell’ascolto.  Non riesco sinceramente a capire, e lo dico senza polemica, come si possa sostenere che brani perfettamente strutturati e melodicamente irresistibili come Cause I’m a Man (dai riflessi molto soul, tra l’altro), Yes I’m Changing, Eventually e persino gli interludi più brevi tipo Nangs e Disciples non siano canzoni molto più delineate, a fuoco e memorabili di tanto materiale sui due dischi precedenti (dove sì che c’era coazione a ripetere). Poi, certo, non è obbligatorio farseli piacere. Ma l’ultima delle accuse che si possono fare a Kevin Parker è di non averci provato e di campare di rendita. Tutt’altro.

Nel frattempo, rileggendo questo sproloquio, mi è venuta voglia di riascoltare i Moffs. Devo ammettere davanti a me stesso che con i Tame Impala non c’entrano assolutamente niente. Però ragazzi, che canzone che era Another Day in the Sun

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