SARDROCK SAMPLER – Lo gnosticismo hooligan di Julian Cope.

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Mentre leggevo 131, il romanzo dell’arci-druido Julian Cope ambientato in Sardegna, a un certo punto mi sono reso conto – in una sorta di illuminazione in qualche modo anch’essa arci-druidica – che nella mia vita ho visto molte più volte Julian Cope di quante abbia visto la Sardegna. L’ho anche intervistato un paio di volte, il buon Giuliano. In una di queste, una decina di anni fa, ci trovavamo in un locale torinese situato vicino alle Porte Palatine, unica rovina romana della città rimasta in piedi. Sapendo della sua passione per gli antichi monumenti, io e gli amici che mi accompagnavano facemmo notare a Cope la prossimità. Lui si fece improvvisamente serio, sotto il suo cappello da Gandalf, strinse le mani sui pantaloni di pelle e abbassò la voce in un bisbiglio. “Non disturbiamo le anime dei soldati romani che le costruirono”. Ssssh, calò il silenzio. Fu un momento di grande raccoglimento e intenso transfert storico-spirituale per tutti noi. Poi gli facemmo una domanda sugli MC5 e in due secondi si dimenticò dell’anima de li mortacci dei legionari del I secolo d.c. (lui la chiama Common Era, essendo notoriamente pagano). Ecco: in questo trascurabile aneddoto, così come in scala ben più ampia in 131, a me pare ci sia tutto Julian Cope. Uno che non sai decidere se è un mezzo genio, tre quarti di paraculo o un pazzo completo, un fanatico del rock’n’roll così come dell’archeologia “gnostica”; un esoterico gaudente e affabulatore dotato di un entusiasmo incontenibile ma anche di una soglia di attenzione non proprio altissima. In questo senso il suo romanzo d’esordio – anche se in qualche modo lo erano pure le sue due autobiografie, Head-On e Repossessed, i saggi da antropologo musicale Krautrocksampler e Japrocksampler e probabilmente (non li ho letti) i suoi studi sulle civiltà megalitiche – è come direbbe lui Ur-Copeiano. Un rollercoaster di follia assoluta ma temperato da humour molto ben calibrato, un po’ cavalcata visionaria e un po’ simpatica puttanata, in cui si aprono mille rivoli narrativi spesso abbandonati con nonchalance da conversazione post-fumata di quelle buone. In ogni caso divertentissimo. Certamente un incubo per qualunque editor, e non oso immaginare per i traduttori. Doveroso quindi il plauso a Luca Fusari, che per Elliot si è immerso nel marasma di questo travelogue psichedelico uscendone vittorioso. Se il romanzo si fa leggere con estremo piacere è merito anche della sua brillante e scorrevolissima traduzione: impresa titanica, ma del resto Fusari è abituato ai corpo-a-corpo con la prosa immaginifica di Cope (neologismi, non sequitur, storpiature, maiuscole a cazzo e così via) essendosi già occupato ottimamente degli altri suoi libri.

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(il celebre album dei Neon Sardinia, sardo-nugget per eccellenza)

La Sardegna, si diceva. In 131 (il titolo riprende il nome della statale sulla quale si svolge il viaggio del protagonista Rock Section insieme alla “beata Anna”, affascinante guida isolana e trasportatrice di auto d’epoca) non è solo location onnipresente: è lo spirito-guida della narrazione. Un personaggio a tutti gli effetti, flusso di energia arcaica, sia benigna che maligna, che alla fine determina il destino degli improbabilissimi protagonisti. A tratti viene in mente il “Sardus Pater” affrontato dall’Inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti (non mi stupirei se Cope lo avesse letto: è roba sua). A dire la verità vengono in mente un sacco di cose. Dalla narrativa “gonzo” di Hunter S. Thompson a quella di Tom Robbins, da romanzi come I dinamitardi di Edward Abbey a film come Punto Zero (debitamente citato nel romanzo: il dj Jesu Crossu che dagli 89.9 in fm manda segnali impliciti al nostro Rock Section sparandogli le canzoni dei famigerati Brits Abroad del suo amico Mick e di vecchie psych band di Fonni e Mamoiada ha lo stesso ruolo che Super Soul aveva per Kowalski in fuga), da Robert Crumb ai Monty Python, da Richard Brautigan all’ultraviolenza di Arancia Meccanica. In fondo il cinquantasettenne Cope rimane un figlio della sua epoca, e non sorprende che abbia attinto, oltre che dal suo lato post-punk, anche da certi caposaldi della controcultura anni 60-70 assorbiti da ragazzo.

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(“Last tango in Paris”, il famigerato singolo dei Brits Abroad che scatenò l’odio del giudice Hertzog. Per “Tango” si intende la bevanda)

Romanzo-patchwork, quindi. Romanzo-flusso di coscienza. Romanzo-caleidoscopio. E anche, evidentemente, romanzo imperfetto e incasinato. Si astengano quelli che con il nasino all’insù cercano la “letteratura”, perché 131 è tutt’altro. Sono abbastanza sicuro che verrà abbandonato a metà e forse anche prima da chiunque non sia appassionato di uno o più di questi argomenti: 1) Rock’n’roll 2) Droghe 3) Rave 4) Calcio e universo hooligan 4) Megaliti e misteri, 5) Julian Cope. E ovviamente la Sardegna. La mia scarsa conoscenza della regione mi impedisce di capire quanto quella che fa da sfondo a 131 corrisponda davvero a quella reale, se certe località esistano o meno, ma la sensazione è che si tratti più di una Sardegna della mente (di Julian Cope). La dislocazione non è solo geografica ma anche storica, peraltro. La storia si svolge nell’estate del 2006, con qualche divagazione (le parti più pallose e incomprensibili del libro, sinceramente) diecimila anni prima. Ma, anche qui, si tratta di una contemporaneità parallela alla nostra. Un mondo nel quale durante i Mondiali di Italia 90 sono accadute cose innominabili, per esempio, oppure nel quale il Morrison morto da tossico maledetto era Van e non Jim, che invece è vivo e pubblica poesie. In cui esistono un Iggy PCP, una Kate W. Bush e dei Nurse with Mound, e nel quale l’estate dell’amore dell’89 ha fatto da sfondo a truci vendette tra gang di tifoserie contrapposte, ma più per motivi musicali-ideologici che calcistici. L’ex star new wave Rock Section (pure qua, citazione tongue in cheek da rockettaro impenitente, dato che probabilmente è un omaggio a Scott “Rock Action” Asheton) torna in Sardegna proprio per risolvere una volta per tutte i traumi e i misteri legati alle vicende dei Mondiali di sedici anni prima. Quando lui e i suoi amici, hooligan e musicisti al seguito dell’Inghilterra, vennero rapiti e violentati in un caseificio fascista abbandonato (!) da una banda di supporter olandesi a capo della quale stava il perfido “giudice” Barry Hertzog, leader ultrà e produttore techno finito in gattabuia nonché autore dei famosissimi Scritti dal carcere (che Gramsci ti perdoni, Julian). Questo è il massimo della linearità a cui si può ricondurre la trama del romanzo, che prevede inoltre svariati viaggi nel tempo, indipendentisti sardi, divinità capitaliste (il terribile Industrialu!), dissertazioni sul socialismo, carri funebri e Panda 4×4, Shaun Ryder e aristo-rapper, dipendenze da efedra e bevande gassate. Helzapoppin’ purissimo, insomma.

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(Maxi-single dei Dayglo Maradona, progetto techno di Rock Section)

Ci sono tuttavia, nel maelstrom delirante di 131, anche momenti di insolita sobrietà e serietà. La rievocazione della tragedia di Hillsborough, ad esempio, fa venire i brividi per il realismo e la crudezza delle descrizioni, e la spiegazione delle responsabilità della polizia nel disastro come di una sorta di rappresaglia thatcheriana nei confronti di Liverpool, città tra le più ribelli al pensiero unico della lady di ferro, non del tutto campata per aria. E poi volendo si possono enucleare vari temi portanti, ad esempio quello del sacrificio. Cope ne parla in una bella intervista ad Alessandro Besselva Averame sull’ultimo numero di Rumore, e riporto parte della risposta perché tutto sommato illuminante (almeno in termini-Cope): “Credo che il Grande Esperimento Occidentale cha luogo in Europa meriti le affermazioni più coraggiose e prometeiche, qualsiasi presa di posizione che nel tempo in cui viviamo ci parli di hybris”. I protagonisti del romanzo, nella loro assurdità, si sacrificano in nome di ideali difficili da capire prima ancora che da accettare ma comunque reali. E quanto alla hybris, qualcuno potrà sostenere che con questo libro Cope raggiunga in proposito vette himalayane. Ma liquidarlo come un pateracchio auto-indulgente sarebbe secondo me sbagliato e superficiale. Sotto la crosta di 131 c’è qualcosa che ribolle e che trasporta lontano, se ci si abbandona alla corrente con lo spirito giusto. E anche stilisticamente è interessante, nel suo essere un pazzesco frullato nel quale l’autore ha buttato dentro tutto ciò che gli interessa, ricordi, battute e calembour che probabilmente aveva da parte da decenni, spezzoni di recensioni da rivista musicale, frammenti di conoscenze arcane e profane. Senza soluzione di continuità si transita dal calcio alla musica alla Storia alle visioni drogate alla psico-geografia al road-movie alle citazioni filosofiche a Top of the Pops e così via. Un po’ come se la narrazione stessa fosse una serie di portali che uniscono realtà antitetiche, capovolte o speculari dalle quali entrare o uscire a piacimento. Creando ircocervi culturali a volte irresistibili. Cito solo uno dei più esilaranti: i gemelli Porcu – irriducibili e cattivissimi avversari di Rock Section, che ricordano un po’ i fratelli Dalton di Lucky Luke – che riproducono dal vero la foto interna di Pawn Hearts (quella con i Van der Graaf Generator che sembrano fare il saluto fascista) a beneficio di uno stupito Ruud Gullit e di altri calciatori olandesi durante Italia 90. Tutto molto pop, tutto molto psichedelico. Right-On, Julian!

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