VASHTI BUNYAN. SOLO UN ALTRO GIORNO DI DIAMANTE

Vashti Bunyan fino a cinque anni fa era un personaggio avvolto nelle brume nella leggenda. Poi, grazie alla ristampa del suo mitizzato capolavoro Just Another Diamond Day (del 1970) e all’amicizia con Devendra Banhart, è diventata un nome di culto. Lookaftering è il suo secondo disco, trentacinque anni dopo.

Mentre i sussurri eterei della Bunyan venticinquenne fanno da sottofondo all’intervista, la stessa voce con trentacinque anni in più – ma con una grazia e un fascino immutati – non fa che scusarsi per l’ora non proprio usuale (mezzanotte) nella quale si svolge la conversazione.

Nessun problema, anzi mi sembra il momento migliore della giornata per parlare della sua musica. In fondo lei è un personaggio che ha qualcosa di notturno, per non dire arcano. A partire da quel fantastico nome che si ritrova.

Lo devo alla passione dei miei genitori per i testi sacri. Vashti era una regina citata nel Vecchio Testamento. Bunyan invece è un cognome inglesissimo. Hai mai sentito parlare di John Bunyan (scrittore secentesco, autore de Il viaggio del pellegrino, uno dei capolavori della letteratura religiosa inglese, NdI)? Beh, è un mio antenato. O almeno così mi hanno sempre raccontato.

Quindi la vocazione artistica è una prerogativa di famiglia.
Un po’ alla lontana, forse (risate, NdI). Mio padre era dentista, mia madre era un’eccellente pianista che si è ritrovata a fare la casalinga abbandonando presto il sogno di una carriera musicale. Quando ero ragazza, pensavo che avrei fatto di tutto per evitare un destino simile. Giuravo a me stessa che non mi sarei mai fatta incatenare dalla vita famigliare, avrei seguito la mia musa a qualunque costo. E invece, la mia unica attività negli ultimi trentacinque anni è stato proprio la madre di famiglia. Dal 1970 in poi non ho più scritto una canzone, sfiorato una chitarra, cantato una nota. Non ho neppure ascoltato la radio o comprato dei dischi. Niente di niente. Ho cresciuto i miei tre figli, che neppure sapevano di avere una
mamma con un passato da cantante pop. A dire il vero, non me ne ricordavo neanche più io. Quella Vashti Bunyan era un’altra persona, che avevo eliminato e nascosto in cantina (ride, NdI). Per quasi trent’anni non ho voluto neanche ammettere che fosse mai esistita.

Fino a quando…
Fino a quando nel 1997 ho avuto la mia prima connessione a Internet. Sempre sia benedetta, la Rete! Per curiosità ho provato, come fanno tutti, a digitare il mio nome su un motore di ricerca. Sono rimasta di sasso quando ho scoperto il culto che circondava quelle canzoni che avevo scritto tanti anni prima. Non potevo crederci: c’era gente che offriva 900 sterline per una copia in vinile di Just Another Diamond Day! Per la prima volta ho pensato che forse c’era qualcosa di buono in ciò che avevo fatto all’epoca, e che io invece avevo odiato per così tanto tempo. Forse erano canzoni che meritavano di essere conosciute
da qualche persona in più dei cento pazzi -anzi, probabilmente erano anche meno – che avevano comprato il disco all’epoca dell’uscita. Così ho provato a cercare un’etichetta interessata a ristamparlo. Scoprire che là fuori c’erano così tante persone interessate alla mia musica è stata un’esperienza davvero formidabile, quasi come nascere una seconda volta.

Quindi fu soprattutto l’insuccesso di Just Another Diamond Day a farle abbandonare la carriera musicale?
Chiamarlo insuccesso è un eufemismo. Non è che lo ascoltarono in pochi. Non lo ascoltò nessuno. Il rifiuto del pubblico a quel punto divenne il mio rifiuto. Se nessuno aveva apprezzato il mio lavoro, quello era il segno che non valeva nulla. Non ero il tipo di artista capace di raccogliere le sfide. Ero insicura, sola, e con scarsissima fiducia nei miei mezzi. Sarebbe bastata anche un solo giudizio positivo, un piccolo incoraggiamento, e forse avrei potuto insistere. Ma non ci fu. Mi convinsi di essere un fallimento, e così mi arresi. Mollai tutto e andai a vivere in una fattoria.

Doveva avere degli standard qualitativi davvero altissimi, nel giudicare il suo lavoro. Oggi quell’album è considerato un classico del folk britannico e tra i cento dischi inglesi più belli di ogni tempo. Ha cambiato la sua opinione al riguardo?
Sì, ora posso finalmente ascoltarlo con le orecchie di altre persone, posso valutarlo attraverso le loro sensazioni. Puoi immaginare come mi sono sentita quando un giovane artista con il talento, la grazia, il coraggio di Devendra Banhart è venuto a cercarmi per dirmi che l’ascolto di Just Another Diamond Day è stata la molla che lo ha spinto a tentare l’avventura da musicista. Ma nel 1970 non c’era Devendra, o chiunque altro, a dirmi quanto erano importanti per lui quelle canzoni. Non sono comunque così sicura che sia, come hai detto tu, un “classico del folk”. Principalmente perché non mi sono mai ritenuta una
cantante folk!

Eppure i brani parlano proprio con quella lingua antica, il suo stesso modo di cantare ha le cadenze della ballata popolare...
Non ero interessata al recupero della tradizione di per sé. Ciò che mi piaceva del folk era la semplicità delle melodie e delle strutture musicali, non mi interessavano più di tanto gli argomenti classici delle folk-ballad. La mia ambizione era trasportare quella naturalezza fanciullesca nel pop, così come aveva fatto Donovan. Che, lo ammetto, è sempre stato il mio idolo.

A proposito di Donovan, è vero che c’entrava con la sua decisione di mettersi in viaggio per l’Inghilterra con un carretto trainato da un cavallo? Ci racconti come andarono le cose.
Nel ’68 la mia carriera non stava andando da nessuna parte, avevo inciso un paio di singoli per Andrew Loog Oldham ma iniziavo a pensare di non avere un futuro nel mondo del pop. Il mondo che mi circondava era sempre più caotico e violento, c’era il Vietnam e un sacco di altri orrori che non capivo e non accettavo. Volevo scappare via, come tanti altri della mia generazione. Mentre i miei amici partivano per l’India o il Marocco, io sono andata a cercare il paradiso in Scozia, e questo già ti dice quanto fossi assurda anche come hippie (risate, NdI). Allora stavo con Robert Lewis, uno studente amico di Donovan. Quest’ultimo stava mettendo su una comune di artisti sull’isola di Skye, e invitò Robert a raggiungerlo. Ci
regalò un centinaio di sterline, e con quelle ci siamo comprati un carro da panettiere e un cavallo. Il mezzo di trasporto più ecologico che si potesse immaginare! Con quello siamo partiti alla volta di Skye, ma per raggiungerla ci abbiamo messo quasi due anni. Ci spostavamo sulle statali, in piena Inghilterra industriale, con i camion che rischiavano di buttarci fuori strada e senza mai trovare un prato per il cavallo. Sembrerebbe un’esperienza bucolica, ma per la maggior parte del viaggio non lo fu affatto. In pratica eravamo degli homeless: ci sostentavamo facendo qualche lavoretto da artigiani, ma ti assicuro che fu durissima. E quando poi arrivammo finalmente sull’isola, scoprimmo che Donovan era appena partito per l’America. Addio comune. Nel frattempo, comunque, avevo scritto tutti i brani di Just Another Diamond Day.

Sulla ristampa del disco ce n’è uno magnifico che non faceva parte della scaletta originaria, I’d Like To Walk Around In Your Mind. A forza di ascoltarla, è diventata una specie di ossessione personale: credo sia una delle più delicate, elusive dichiarazioni d’amore nella storia del pop inglese. Una canzone perfetta, soprattutto la strofa che recita” I’d like you to be unaware/then I just wander away trailing palm leaves behind me/ so you don’t even know that I’ve been there”.
Era un demo di un pezzo che avrei dovuto incidere per la Immediate nel 1967. Buffo che tu mi citi proprio quella strofa, perché descrive perfettamente la mia attitudine nei confronti del mondo musicale. Che infatti, non si era neanche accorto che io fossi là intorno.
In compenso, c’è una nuova generazione che la ha eletta a musa e fa la fila per suonare con lei.

Come si sente, circondata dall’affetto di questi neo-freak?
Un sensazione meravigliosa. Sono le persone che avrei voluto avere intorno trentacinque anni fa, quegli spiriti affini che ho sempre cercato. Joanna Newsom, adorabile ragazza, che è venuta a cantare nel mio disco mentre era in tour in Scozia, quei matti degli Animal Collective che mi hanno obbligato a usare la mia voce in un modo che non immaginavo neanche, Glen Johnson dei Piano Magic, Andy Cabic, il mio arrangiatore e produttore Max Richter. E poi Devendra, per il quale non ci sono parole. Un altro personaggio a cui devo molto è Stephen Malkmus, che due anni fa volle a tutti i costi che mi esibissi durante un festival organizzato da lui alla Royal Festival Hall di Londra. Era la prima volta dal 1969,
tremavo come una foglia e non riconoscevo neanche la mia voce.

Si sente pronta per un tour?
Sì, ho molta voglia di suonare dal vivo, e ti confesso che mi piacerebbe poter fare qualche concerto in Italia.


Verrà con un carro a cavalli?
Ah ah, non credo proprio. Quei tempi sono molto, molto lontani. Ma almeno oggi posso tornare a guardarli con distacco, e confessare a me stessa che in fondo me li porto ancora nel cuore.

(dal Mucchio Selvaggio, dicembre 2005)

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