
John Lydon, ovvero l’intervista che non s’aveva da fare. Contrariamente a ciò che si può pensare, non per mancanza di disponibilità dell’intervistato. Tutt’altro. Dopo che vari contrattempi, abbastanza comici, hanno fatto slittare di un mese il nostro slot con mister PIL, il giorno prima del nuovo appuntamento telefonico ci viene chiesto di rimandare ancora di ventiquattr’ore. John ha un appuntamento con il dentista. Il dentista? John Lydon?? Siamo al trionfo del surreale: un po’ come sentirsi dire “Burzum oggi non può, deve andare a messa”.
Finalmente, il giorno dopo sentiamo esplodere nel ricevitore la voce meravigliosamente british – anzi: brrrrritish – dell’uomo che sosteneva di essere un anticristo. Il tono è sorprendentemente allegro anche se ogni tanto la dizione si fa rallentata (saranno gli effetti dell’anestesia). “Hallo, hallo-hallo-hallo, this is John Lydon speaking”. Giusto il tempo di chiedergli dove si trova – si avverte il rumore di un elicottero sullo sfondo – e di sorridere per la risposta (“Sono in spiaggia, a Malibu, questa che senti è la cazzo di polizia che gira”) che ovviamente cade la comunicazione. Capiterà quasi una decina di volte nei quarantacinque minuti di conversazione. Ogni volta penso “ok, è finita, adesso risponde con un fuck off e ciao”. E invece dopo ogni squillo John riprende a parlare imperturbabile, chiedendo alla fine con una gentilezza insospettabile se la risposta è chiara. Toh, guarda, pensavo di dover parlare con l’uomo più cattivo nella storia della musica e invece eccoti uno zio simpatico e un po’ sbiellato. Punk is dead, definitivamente. Naturalmente questo sarebbe il genere di considerazioni che lo farebbe incazzare a morte, per cui mi guardo bene dall’azzardare qualunque riferimento al ‘77, a McLaren, al nuovo giubileo della Regina (la tentazione è stata forte, però) e al solito rosario di luoghi comuni che l’ex Johnny Rotten ispira. D’altra parte, sarebbe anche piuttosto stupido. C’è un nuovo album dei PIL di cui parlare, un disco godibile e solidissimo del quale il suo autore è giustamente orgoglioso.
“È stato un divertimento totale, fare questo disco. Gioia pura. Cinque-sei settimane in studio, cercando di ottenere il suono più live possibile. Niente trucchi e sovra-incisioni. La mia voce è quella che senti nel disco, non c’è nessuna manipolazione. Canto in studio come canto dal vivo. Perché è questo che siamo oggi: vivi. Tutti credevano che i Pil fossero una storia sepolta, e invece eccoci qua, ladies and gentleman. E tutto quello che ti diciamo è vero, non c’è finzione”. Questo della “verità”, e dell’onestà nel presentare se stessi e il proprio prodotto (termine una volta molto caro a Lydon), è un tormentone che ricorre nelle risposte. Tiene moltissimo a sottolineare la trasparenza assoluta del suo rapportarsi al pubblico, il fatto di non mettersi su un piedestallo. Chiunque altro, nello showbiz e non solo, secondo Lydon è finto, ipocrita, phony. Usa talmente spesso quell’aggettivo che a un certo punto mi sembra di parlare con Holden Caulfield. E non ho mai trovato un musicista che ripetesse con così tanta insistenza la parola “valori”. “L’ho detto e lo confermo: i PIL sono i vostri unici amici nel mondo dello spettacolo. Perché sono umani. Perché non vogliono fregarti. Io non potrei mai truffare il mio pubblico, lo amo. Chiunque altro mente, tutti preferiscono l’immagine al contenuto. Phony artists, phony human beings. Io non ti vendo una falsa attitudine, non mi faccio propaganda come fossi una divinità secondaria. Sono uno di voi. Le mie canzoni parlano di ciò che condividiamo tutti quanti: la natura umana”. Per essere sicuro che capisca il concetto, mi fa anche lo spelling: h-u-m-a-n n-a-t-u-r-e.

In questo senso, dunque, si spiega anche l’inedita vulnerabilità mostrata in alcune canzoni, per esempio The Room I Am In. “Vulnerabilità, certo. Come tutti anch’io ho vissuto situazioni disperate, quando hai bisogno di attaccarti a qualcosa per non impazzire. Come quella da cui prende spunto quella canzone. Mi riferisco a quando ero in terapia di disintossicazione (non specifica da quale droga, NdI). Mi trovavo in una camera chiusa senza finestre. Desolazione assoluta. Chiusura totale verso l’esterno, e allo stesso tempo l’impulso di rompere la barriera. Un momento terribile, ma da quell’inferno se ne esce. Vedi, io voglio trasmettere quest’idea, che non ci si deve arrendere agli impulsi suicidi e alla disperazione. Sono John, un essere umano, e voglio condividere un’esperienza, non parlarti di cazzate su automobili e ragazze o della pace nel mondo”. Gli chiedo se un brano come Deeper Water tratta dello stesso argomento. “Certo. È un altro invito a trovare dentro di te la chiave per risolvere i tuoi problemi. Si deve imparare a nuotare contro la corrente: è un modo più intelligente per restare a galla, quando hai paura di annegare. Molto meglio che seguire i consigli di chi hai intorno, che ti manderebbero dritto a sfracellarti sugli scogli”. Quando si vuole trasmettere senza mediazioni la propria esperienza, come rimarca continuamente Lydon, l’autobiografismo diventa quasi inevitabile. E nei testi di This-Is Pil ce n’è parecchio. Soprattutto ricordi della Londra di quando il musicista era ragazzo – “My name is John, I come from London” è un verso che ricorre nel disco- a tratti dipinta con tonalità quasi nostalgiche. In Inghilterra più di un critico ha fatto dell’ironia su questa vena malinconico-patriottica, sottolineando velenosamente il fatto che Lydon vive da anni in California. “E quindi? Non posso parlare della mia città, o del mio paese? Sono nato e cresciuto a Londra. Devo forse negarlo? Lì sono le mie radici culturali, la mia famiglia, tutti i miei valori. Devo forse nasconderli, perché a qualche snob del Guardian dà fastidio? Chi dice queste cose è un idiota. Io parlo del cuore, e dico le cose come stanno. Sempre”.

Mi piace un sacco, gli dico, quando rimembri i tempi in cui il calcio “non faceva sbadigliare”. Sempre tifoso dell’Arsenal? “I’m recovering! (ride, NdI). Brutta annata, ma sì, sono sempre un supporter dei gunners. Il calcio oggi è diventato noioso perché sono noiosi i calciatori. Una volta li incontravi nel pub sotto casa, vivevano nella tua stessa dimensione sociale. Oggi hai questi robot miliardari con le sopracciglia rifatte che sgommano sulle loro Ferrari, non puoi avere un rapporto con loro. Quando ero ragazzo i calciatori si impegnavano di più perché potevi prenderli a calci in culo quando li vedevi per strada, ah ah ah”. Rimanendo in ambito sportivo, è vero che hai rifiutato l’invito a esibirti durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi con i Sex Pistols? “Ascolta, il mio gruppo sono i PIL adesso, non i Sex Pistols. Non capisco perché mi chiedano di fare delle cose con un gruppo che non è il mio. Mi avessero chiesto di andarci con i PIL, avrei detto sì, senza nessun dubbio. Anche se odio questo genere di celebrazioni, e penso che le Olimpiadi dovrebbero tenersi sempre in Grecia. Lì sono nate e lì devono rimanere”.
Dopo l’ennesima caduta della linea, ed aver subito l’unica frecciata di sarcasmo lydoniano (“you better adjust your spanish phone”, evidentemente per lui tutti quelli che stanno a sud di Brixton sono la stessa cosa), provo a indagare sui suoi gusti musicali attuali. Dub e reggae sono sempre grandi passioni? E l’hip hop, del quale un pezzo come Lollipop Opera sembra dare una versione quasi dadaista? “No, non ascolto più quel genere di cose. Mi hanno stufato anni fa, non ho più tempo per quella roba. Quello che non mi piace di quelle musiche, oggi, è che dipendono troppo dalle macchine. Hanno perso il contatto con la naturalità del suono, che è quello che cerco con i PIL. Usiamo anche noi un sacco di computer e di aggeggi elettronici, ovvio, ma siamo analogici nello spirito e nei risultati. Non ci facciamo dominare dalla tecnologia. L’hip hop l’ho esplorato quando ho lavorato con Afrika Bambaataa nell’84, con il progetto Timezone. Ero in anticipo su tutti. Adesso non me ne importa più niente. E comunque Lollipop Opera non c’entra con l’hip hop, è tutta un’altra cosa. Una roba tipo il primo ska mischiato a musica folk turca, ma in un contesto irlandese. Se ascolti bene ci trovi quel tipo di progressioni mediorientali, la ritmica caraibica, le cantilene da ubriaconi al pub…la musica che mi piace è quella che mischia influenze diverse, magari senza neanche volerlo fare intenzionalmente. È quella la musica che sentivo a Finsbury Park quando ero piccolo, non il merdoso rock’n’roll. Sono cresciuto in un quartiere cento per cento working class, pieno di emigrati di ogni parte del mondo. Passeggiavi per la strada e sentivi tutti ‘sti suoni fenomenali venir fuori dalle finestre, era una sensazione fantastica. Oggi tutti parlano di multiculturalità, ma io l’ho conosciuta già da bambino a Finsbury Park, era già tutto lì. Venir su in un posto così ha definito il mio sistema di valori. Lollipop Opera è un tentativo di acchiappare l’innocenza dell’infanzia. L’hai definita ‘dadaista’ e mi piace, in fondo i dadaisti cercavano di ottenere lo stesso effetto”.
Rimanendo sul tema della musica, il discorso scivola sul modo di ascoltarla. I PIL hanno fatto uscire un EP (One Drop) in edizione limitata per il Record Store Day, quindi viene da pensare che la possibile scomparsa del formato fisico sia un argomento che sta parecchio a cuore al vecchio iconoclasta. “Io amo il vinile. Lo adoro. Non è solo il modo migliore per sentire la musica. È l’unico. Tutti gli altri sono un surrogato, dal cd allo schifoso mp3. Ho cominciato ad appassionarmi alla musica con il vinile, e non ho mai smesso di comprarlo. Anche quello fa parte della mia esperienza di vita. L’unica riproduzione fedele del suono ce l’hai in quel modo, lo sa ogni dj e lo sa ogni vero amante della musica. I ragazzi di oggi entrano in contatto con la musica solo tramite Internet, non sono consapevoli della limitazione del segnale sonoro perché non hanno sviluppato una sensibilità adeguata. Non sanno quanto si perdono. Se lo sapessero, raderebbero al suolo le case discografiche che hanno provocato tutto ciò, quando hanno deciso di buttare a mare il vinile negli anni Ottanta”.

A proposito di rabbia giovanile, racconto a John di quanto sono rimasto impressionato, vedendo dal vivo i PIL a Barcellona lo scorso anno, dal modo in cui un pubblico di ventenni o poco più cantava il celeberrimo slogan di Rise. Quell’”anger is an energy” dieci o quindici anni fa non sarebbe risuonato così convinto, e così minaccioso. “Il sentimento evocato in quella canzone è radicato in ogni cultura. C’è un momento in cui la rabbia diventa l’unica forza che hai a disposizione, l’unica tua risorsa di energia. E allora devi trattenerla, non disperderla. Potrà esserti utile. Rise è una canzone che parla di ribellione e forse sì, in questo momento ha ancora più senso. Ero contento di vedere che quei ragazzi se la ricordassero, significa che i PIL hanno ancora un grande potere (risata, NdI)”. Quello contrattuale di sicuro. Considerando soprattutto che un contratto non ce l’hanno. “Finalmente! È il modo migliore per stare nel business. Indipendenza assoluta. Quando ho iniziato con i PIL ero ancora sotto il contratto che avevo dovuto accettare con i Sex Pistols, un contratto che non avevo negoziato e che mi è pesato addosso come un macigno per troppi anni. Quello che mi ero messo a fare con il gruppo era molto diverso da ciò che si aspettava la casa discografica. Eravamo in uno stato di guerra continua. Dovevo pagare per ogni cosa, e nonostante questo non mi lasciavano libero di andarmene. Ho dovuto imparare a essere paziente. Alla fine ho vinto, e oggi sono un free agent!” La libertà e l’indipendenza hanno un costo, però. E per finanziare il ritorno dei PIL, Lydon ha accettato di buon grado di comparire in programmi trash e nel commercial (strepitoso) per una marca di burro. Quando gli dico che è il testimonial che tutti i pubblicitari sognerebbero, ride come un matto: “Quello spot è la cosa più divertente che abbia mai fatto in vita mia, con le persone più corrette e rispettose che abbia mai incontrato. Altro che la gentaglia del mondo discografico. Amo i pubblicitari, amo anche i loro contabili e i loro avvocati, ah ah ah. È stato un progetto in cui mi sono impegnato al cento per cento, sapendo che i soldi che mi davano sarebbero finiti nei PIL. E poi mi piaceva l’idea di propagandare un prodotto davvero britannico. Se i danesi sono orgogliosi del loro burro del cazzo, perché non dovremmo esserlo anche noi?”.
Prima di salutarlo, cade per l’ultima volta la linea. Quando lo richiamo per ringraziarlo della pazienza, mi dice: “No problem. I deeply respect your resilience”. Credo che mi farò tatuare questa frase su un braccio.
