HUMAN SWITCHBOARD: DALL’OHIO, CON AMORE E CON SQUALLORE.

Avete presente la California? Sole, spiagge, oceano, gente (apparentemente) sana, bionda e bella. Bene, adesso provate a visualizzare il suo esatto opposto: signore e signori, benvenuti a Cleveland. Se è mai esistito un posto che ha fieramente incarnato la definizione di buco di culo degli Stati Uniti – o shithole, per dirla con le parole di quel caso umano con i capelli punk attualmente residente alla Casa Bianca – è proprio la città dell’Ohio a metà degli anni Settanta. Ma la prestigiosa qualifica si potrebbe estendere anche alla vicina Akron: nel complesso, un’area urbana in un tale stato di decadenza da far sembrare le contemporanee Manchester, Liverpool e Sheffield delle amene cittadine rinascimentali. Adagiata su un fiume che ogni tanto si incendia a causa dell’inquinamento e dal quale vengono su cadaveri di pesci avvelenati (immagine che la Radar Records utilizzò per pubblicizzare Datapanik in the Year Zero dei Pere Ubu), sventrata da una ristrutturazione edilizia selvaggia, punteggiata da tralicci in disuso e acciaierie chiuse, popolata di disoccupati per quali il no future è un’opzione tragicamente reale e inevitabile, Cleveland intorno al ’76-77 è una Zona Morta nella quale, come è sempre accaduto da che rock’n’roll è rock’n’roll, non potevano che spuntare meravigliosi fiori marci, rifiuti tossici dai quali estrarre nuova energia pulita (si fa per dire).

A ripensarci, la lista delle band locali che hanno impresso a fuoco il loro marchio sulla storia del punk e del post-punk americano è impressionante, se si considera che posto infame e senza un domani fosse quello. Ci sono ovviamente gli Ubu e la loro ascendenza Rocket from the Tombs, da cui germinano anche i futuri espatriati sulla Bowery newyorkese Dead Boys. Ci sono i Pagans e quei drop out senza speranza degli Electric Eels, ma anche delinquenti oggi dimenticati come Mirrors, Styrene, Chronics, Friction e antesignani come i bizzarri punk-funkers 15-60-75/Number Band. Da Akron, a trenta chilometri di distanza, là “dove il sogno americano finisce”, arrivano invece pesi massimi come Devo e Cramps e pesi piuma come Bizarros e Chi-Pig, senza contare nativi celebri come Chrissie Hynde, Jim Jarmusch (che in gioventù aveva una sua punk band, i Del-Byzanteens) e Robert Quine.

E poi ci sono, esattamente a metà strada tra le due città, gli Human Switchboard.

Due ragazzi e una ragazza. Distanti, almeno in apparenza, dal lercio sotto-mondo che abbiamo appena evocato: per stile, influenze musicali, suono, approccio, abitudini di vita. Eppure totalmente immersi in quell’ambiente, tramite decine di fili intrecciati che ne fanno a pieno titolo dei prime mover della scena dell’Ohio nonché uno dei suoi motori più o meno immobili. La parabola della band non è stata breve, coprendo un arco di tempo che va dal ’77 all’84, ma il nome del “centralino umano” – immagine che avrebbero potuto utilizzare i Devo, pienamente calata in quel contesto di tecnologia putrescente e umanesimo futurista e futuribile – appartiene più all’area del mito che della cronistoria punk/wave. C’è sempre stato un alone sfocato intorno a loro: in parte dipeso dalla scarsità di testimonianze dirette, articoli e interviste – ancora oggi in rete si trova ben poco – e molto da un’eredità discografica non solo smilza ma per lungo tempo pure difficile da reperire, se non a prezzi assurdi. Oggi con un paio di cliccate su Discogs ci si può portare a casa tutti gli Human Switchboard che servono senza dover accendere mutui, ma nei tardi anni Ottanta e primi Novanta un album come Who’s Landing in My Hangar?per non parlare del bootleg dal vivo, dei singoli 7” e della famigerata cassetta della ROIR intitolata Coffee Break! – rappresentava una sorta di Sacro Graal. Fossero girati di più quei dischi, se una Edsel o una Demon qualsiasi li avesse ristampati quando era ora, sarebbero diventati un punto di riferimento imprescindibile in quel periodo cruciale posteriore agli ultimi fuochi new wave, all’incrocio temporale tra indie americano, garage revival (ah, quel Farfisa! più che un indizio, una pistola fumante) e pre-grunge. Così invece, per chi se li era persi in diretta (quasi tutti), Human Switchboard era semplicemente un nome da bisbigliare con reverenza perché citato da questo o da quell’altro dei protagonisti del rock underground di allora, ma che pochi avevano davvero messo alla prova dell’ascolto. Destino simile a band tipo Mission of Burma o Pylon, per capirsi.

La storia tra Bob Pfeifer e Myrna Marcarian inizia dove spesso iniziano le storie tra un ragazzo e una ragazza americani: al college. E prosegue dove tutte le storie tra un ragazzo e una ragazza dovrebbero proseguire: in una  band e in un negozio di dischi. I due si incontrano peraltro lontano dall’Ohio, e precisamente in quella Syracuse University newyorkese frequentata quindici anni prima da Lou Reed e Sterling Morrison. Nomi non del tutto irrilevanti nell’educazione sentimental-musicale di Bob e Myrna, e tutto sommato la coincidenza ha un suo senso. Serendipity, dicono laggiù. Scoccata la scintilla tra il chitarrista dinoccolato di origine slovena e la brunetta di buona famiglia tastierista dilettante, è già ora di tornare nella Cleveland natia e mettere su una band insieme al batterista Ron Metz, vicino di casa di Pfeifer. Neanche il tempo di fare le prime prove in cantina e i tre si trasferiscono al campus della Kent State University per proseguire lì gli studi. Sì, esatto, quella Kent State. L’alma mater immortalata in Ohio di Neil Young, quella in cui sette anni prima la Guardia Nazionale aveva steso a fucilate quattro ragazzi che partecipavano a una manifestazione contro il Vietnam (manifestazione alla quale avevano preso parte anche i futuri Devo Gerald Casale e Mark Mothersbaugh, amici di una delle vittime: altre coincidenze…). Senza aver suonato neanche un concerto in birreria, i tre pubblicano subito un EP, uscito in formato 7”. All’epoca girava così: si andava di corsa. I quattro brani dello Human Switchboard EP (che altre fonti chiamano Fly-In Sessions, titolo che peraltro non appare sulla copertina del disco) vengono registrati con l’aiuto al mixer di papà Ubu, David Thomas. Uno che ha sempre avuto un testone pieno di idee, ma che non è precisamente Phil Spector. Le canzoni dell’EP sono ruvide, secche, delimitate da contorni ben definiti e bordi taglienti. Dilettantesche, ma con stile. Sul lato A Fly-In apre con passo robotico per poi distendersi verso il finale, fornendo nel testo una specie di prontuario per fare breccia nel cuore di una ragazza: poche regolette semplici, cose tipo “tell her she’s your love your dream your everything/ whisper sweet somethings in her ear anytime/don’t go too far/ it’s your first night and it’s’ your first day/ love her like a woman and you know it will be alright”. Più minacciosa e marziale Distemper, che contraddicendo i consigli di bon ton del brano precedente si rivolge con toni abbastanza grevi e lampi di erotismo nevrotico a una lei paragonata a un “jelly roll” e una “bowling ball”, con capelli “that look just right” e “pants a little too tight”. Girato il dischetto, si viene accolti da un “hey!”, una chitarra rockabilly e un giro di Farfisa che sembra preso di peso da Liar Liar dei Castaways. Shake It, Boys è la rivincita femminile sul maschilismo neanche troppo dissimulato del lato A, purissimo rock’n’roll con la voce da ragazzaccia di Myrna Marcarian a dare un tocco di soave innocenza fifties. Ancora le tastierine garage sugli scudi in San Franciscan Nights, ma qui Myrna si limita al controcanto lasciando nuovamente sazio al timbro acidulo da Lou Reed incarognito di Pfeifer, che racconta di nottate californiane passate a cazzeggiare su e giù per Frisco, “wishin I was in some bed in Cleveland” , alla ricerca di una donna qualsiasi ma purtroppo “you make down to Berkeley and find out they all went gay”. Cinismo velvettiano e orgoglio provinciale del Midwest, caratteristiche che la foto in bianco e nero in copertina sembra riassumere in una posa sottoesposta: i tre si nascondono dietro gli occhiali da sole di prammatica, la Marcarian pare una versione più giovane e ancora più asessuata di Moe Tucker mentre Pfeifer e Metz hanno in testa delle coppole che li fanno sembrare due papponi sfigati.

Immagine ripresa, questa volta però disegnata e non fotografica, sulla cover del secondo 7”, inciso nel marzo del ’78 tra un semestre e l’altro alla Kent State. I Gotta Know/No! viene messo su vinile negli studi Suma di Akron e come l’EP esce sotto l’egida della fantomatica Under the Rug Productions, “etichetta” personale del gruppo. L’attacco a passo di rumba di I Gotta Know è un falso segnale, si tratta semplicemente di un’altra asprigna caramella pop-punk doppiata sul retro da uno scaracchio settantasettino che miscela Seeds e Sex Pistols. Neanche il tempo di posare la puntina e i due pezzi sono già finiti, in ossequio al culto della concisione dell’epoca. Tutto molto fast & nice, ma per ora niente che faccia presagire la magnificenza dell’album a venire (per il quale si dovranno aspettare, peraltro, ben tre anni). Siamo sui livelli da catalogo Bomp! minore, e gli Switchboard non paiono avere artigli abbastanza affilati e neppure la cazzimma necessaria per poter fare il salto in avanti come alcuni loro illustri concittadini. Per cui, in quel ’78 che vede The Modern Dance e Q:Are We Not Man? A: We Are Devo diventare instant-classic di una “cosa nuova” che ancora non esiste, Myrna a Bob tornano a Cleveland e aprono un negozio di dischi, attività che li sosterrà economicamente (eh sì: c’è stato un tempo in cui vendere dischi ti sosteneva economicamente) mentre ponderano sul futuro, affinano il suono, scrivono canzoni e – ultimo ma non ultimo – cercano un’etichetta che li faccia uscire dal girone delle auto-produzioni da amatori.  Mentre cominciano a suonare al di fuori del perimetro Cleveland/Akron/Kent, spingendosi fino a Hoboken, Boston, Washington e persino nella Grande Mela, dove diventeranno di casa in club come l’Hurrah, incidono un terzo singolo con il contributo della succitata Numbers Band. Prime of My Life, propulsa dai fiati sgangherati dei concittadini, ha un bel tiro swing-punk ma è il retro In My Room, lento ruminare notturno e psichedelico guidato dalle linee vocali sgraziatissime e singultanti di Pfeifer, a rubare la scena. Un pezzo che avrebbe fatto la sua porca figura su Blank Generation di Richard Hell e i suoi Voivoids, per dare l’idea. Si sente che i ragazzi stanno crescendo e che hanno in canna qualcosa di sorprendente, e a captare i segnali prima di chiunque altro, come spesso accadeva in quegli anni, sono oltreoceano le antenne dritte della Rough Trade. L’etichetta di Geoff Travis commissiona un singolo da tre brani, che alla In My Room di cui sopra abbina due pezzi nuovi, Who’s Landing In My Hangar? e I Can Walk Alone. Il singolo per qualche ragione non viene fatto uscire, ma intanto la band, sfruttando il passaparola e i link tra etichette, si accasa presso la Faulty Products, sussidiaria della I.R.S. Ci siamo quasi: è tutto pronto per l’esordio sulla lunga distanza. Alcuni dei brani che ne faranno parte vengono anticipati dalla scaletta del bootleg dal vivo intitolato – viva l’originalità – Livee uscito (si fa per dire: 1000 copie di tiratura semi-clandestina) nel 1980. Per chi volesse farsi un’idea di come fossero sul palco gli Human Switchboard può essere un reperto interessante e su internet si trova facilmente, ma per un’impressione veloce possono bastare anche quei due o tre video su YouTube, con il trio – in realtà quartetto: c’è anche il bassista Steve Calabria – ripreso al Peppermint Lounge nel 1981. L’anno in cui, finalmente, esce il loro primo, e disgraziatamente ultimo, lp.

Siamo nel 1981. E’ iniziato da poco un nuovo decennio, ma già se ne sta rimpiangendo un altro. La nostalgia per i Sixties fa parte del dna di molta musica underground degli Ottanta, ma la sua manifestazione più interessante non è, a ripensarci, quella del puro revival formalistico – benché divertente e per certi versi necessario – che animerà la scena garage-psych dalla metà del decennio in poi. Il vero fascino di quell’unione innaturale tra le aspirazioni di due epoche totalmente agli antipodi stava proprio nei riflessi antichi che lambivano dischi come Who’s Landing in My Hangar? Oppure quelli dei B-52’s. O l’esordio dei Feelies. O saltando dall’altra parte dell’Atlantico la psichedelia riverniciata di Teardrop Explodes e Echo & the Bunnymen. Insomma, ci siamo capiti. Musica calata nel proprio tempo, con tutte le ombre e le inquietudini e i nervi a fior di pelle e la n.o.i.a. di quel periodo, ma con quei fugaci lampi di luce e ottimismo che riportavano a momenti più felici. Bastava un accordo jangle, un giro d’organo, una melodia lineare ed eccoli lì, i convitati di pietra: i formidabili, indimenticabili, fotuttissimi anni Sessanta. Il contrasto che ne scaturiva era irresistibile. Tutti i nomi fatti più su possono essere spesi come riferimenti parlando delle dieci splendide canzoni di Who’s Landing… e molti altri se ne potrebbero citare. Gli inevitabili Velvet, Blondie (sopratutto per quanto riguarda le due canzoni cantate e co-firmate dalla Marcarian, in apertura delle due facciate: (Say No) to Saturday’s Girl e I Can Walk Alone, che nell’attacco di chitarra ricorda in modo assurdamente perfetto una canzone di qualche anno dopo, Looking for Lewis and Clark dei Long Ryders) e forse più di ogni altro i primissimi Modern Lovers. In diversi momenti del disco, tastiere alla Jerry Harrison a parte, viene a galla quella sorta di disperata innocenza che connotava il giovane Jonathan Richman, prima che diventasse un cartone animato vivente. In canzoni come (I Used To) Believe In You, In This Town, Book on Looks, ma in generale in tutto l’album c’è una dialettica costante tra corruzione e rifiuto della stessa, tra ricerca della semplicità e della purezza nei sentimenti e nelle cose della vita contrapposta all’abitudine psicotica – già molto anni Ottanta, in effetti – di complicarsela, la vita. Quello che non c’è è un attimo di respiro. La tensione non cala mai, dall’inizio alla fine, ed è un piccolo miracolo di dinamismo applicato. Nelle note sul retrocopertina, il giornalista e amico della band Tom Carson scrive: “C’è un senso di cose ridotte alla loro essenza, di disperazione da tre del mattino, esacerbata dalla furia e dal divertimento o da entrambi, qualcosa che all’inizio sembra fatalismo ma che in effetti è la più pura, glaciale forma di rabbia rispetto a come vanno le faccende nel mondo. Si può dire di loro la cosa migliore che si possa dire di una band di rock’n’roll: mentre li ascolti, ti sembra di sentire la verità”. Oppure, se non proprio la verità, quantomeno la realtà. I brani di Pfeifer sono uno studio della quotidianità, una lente solo leggermente distorta posata sulle dinamiche di coppia, sugli oggetti che ci circondano, sulle imperfezioni della vita di ogni giorno. Un approccio minimalista che tuttavia diventa strumento di riflessione su questioni più grandi e universali, e in questo si può istituire un collegamento con un altro trio formato da due uomini e una donna, musicalmente lontanissimi ma tematicamente affini: gli Young Marble Giant. Esiste qualcosa di più – ehm – new wave di questo? E tutto ciò si concentra nel punto focale – e capolavoro – dell’album: Refrigerator Door. Kurt Cobain, uno dei mammasantissima che hanno dichiarato il loro amore per gli Human Switchboard (altri iscritti al club: Mark Lanegan, Chris Cornell, Elvis Costello e i Beastie Boys) l’aveva definita “la Stairway to Heaven del punk”. Qualcuno non lo vedrà esattamente come un complimento, ma sostituendo il misticismo fricchettone con la nevrosi suburbana, e la Terra di Mezzo con un monolocale puzzolente della periferia di Cleveland, ci può stare. In un bellissimo articolo sugli Human Switchboard (uno dei pochi rintracciabili in rete), il critico Michael Baker descrive così la canzone, utilizzando immagini stranamente simili a quelle di Carson: “sette minuti e mezzo che introducono a un mondo di amore e freddezza, di transitorietà e momenti di indecisione, di aspettative infrante e promesse non mantenute. Musica che racconta di rotture sentimentali e bar squallidi e vecchio giornali e sigarette fumate alle quattro del mattino”. Tensione che monta lentamente, di nuovo, ma senza rilascio. Le due voci di Pfeifer e Marcarian sviluppano una conversazione intima che a un certo punto si avvita su se stessa e parte per la tangente della non-comunicazione assoluta, con gli “uh la la la la” di Myrna che contrappuntano in modo surreale le frasi in sloveno di Bob, nelle quali si intravede addirittura il fantasma di Psycho Killer dei Talking Heads.

Who’s Landing in My Hangar? è un UFO che attraverso il cielo dei primi anni Ottanta, lasciando una scia luminosissima e andando a schiantarsi da qualche parte nell’oceano. La vicenda degli Human Switchboard durerà ancora tre anni, ma non ci sarà un seguito su vinile. Ce ne sarà, tutt’al più, uno su nastro: la ROIR, etichetta specializzata in reperti punk-wave su cassetta (un titolo su tutti. il celeberrimo The Blow-Up dei Television) farà uscire nell’82 Coffee Break!, registrazione di un concerto tenuto all’Agora di Cleveland nell’autunno dell’anno precedente. Testimonianza interessante più che per la performance della band (la qualità sonora deficitaria non aiuta, in questo caso) per la presenza in scaletta di alcune canzoni inedite. Così come inedite sono una manciata di tracce sull’antologia Whos’ Landing in My Hangar- Anthology 1977-1984 (Bar-None, 2011), a oggi il tentativo migliore di sintetizzare su cd la storia degli Human Switchboard. Si tratta di incisioni fatte nell’83-84 in previsione di un disco per la Polydor, ovviamente abortito. Indicazioni preziose di come avrebbe potuto essere un secondo album della band, tra divagazioni country (Always Lonely For You), tentazioni funk (I’m Your Temptation), eccellenti esercizi pop (A Lot of Things). Si intravede persino un certo potenziale radiofonico che chissà, avrebbe potuto lanciare la band nella zona di confine tra l’underground e il maistream, magari sulla scia dei R.E.M. e gruppi simili. Ma il tempo ormai è scaduto: too little, too late. La parabola degli Human Switchboard si conclude a metà decennio, e poco si saprà delle successive esperienze dei tre. Pfeifer e la Marcarian in qualche modo rimarranno nell’ambito musicale, ma senza lasciare tracce significative. Tutta la loro storia, tutto quello che avevano da dire, è in quella manciata di canzoni che a distanza di quarant’anni bruciano ancora di vita, di gioventù, di urgenza.  Canzoni che fiammeggiano sul crinale del tempo, come il fiume Cuyahoga nelle notti di Cleveland.

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