
Paul Weller è uno che intimidisce. Per almeno quattro ragioni. La prima è il carisma. La seconda è che non sta mai fermo, si muove a scatti e quando parla ti guarda direttamente negli occhi. La terza è la sua fama di mangia-giornalisti. La quarta vale solo per scrive, ed ha a che fare con il vecchio adagio che non si dovrebbero mai incontrare i propri eroi personali perché eccetera eccetera. Il risultato è che il registratore, intimidito pure lui, si inceppa dopo mezzo minuto, e mentre il sottoscritto si arrabatta per farlo ripartire cercando nel contempo di fare il disinvolto con la star – “una sigaretta, Paul?” “No, non fumo mai prima di un concerto.”. “Ah, giusto, ci mancherebbe altro.” – la prima domanda la fa proprio lui, l’intervistato.
Are you nervous, mate?
Figurati. Non c’è motivo. A parte il fatto che mi trovo davanti a un mio mito ultraventennale e che proprio ieri ho letto di una tua vecchia intervista nella quale già alla terza domanda minacciavi il giornalista di spaccargli la faccia…
Ah, ma quella è roba di dieci anni fa. Altri tempi. Le interviste oggi quasi mi divertono, contrariamente a quello che succedeva in passato. E poi si trattava di un giornalista inglese, altra razza. Qui siete più civili. Gran parte della stampa lassù da noi è inqualificabile. Quella musicale poi è anche peggio della media: si danno un sacco di arie intellettuali, poi però mantengono sempre questa maledetta impronta da “tabloid”, non se la toglieranno mai. Si cerca lo scandalo, la si butta sul personale. Ma a chi gliene frega della mia vita privata, o di quante pinte bevo al pub? A me interessa solo parlare di musica, e credo che a chi legge debba interessare soprattutto quella. Per cui non ti preoccupare. Al massimo, alla prima domanda non gradita.. (accenna una mossa di pugilato, fortunatamente aggiungendoci una risata, NdI)
Fantastico, ora sì che sono rilassato. Bene, allora parliamo di… musica? Il tuo nuovo disco mi pare decisamente più tonico degli ultimi due in studio.
La penso anch’io così.
Meno male.
No, davvero. Penso che sia in assoluto la cosa migliore che abbia mai fatto. Meglio anche di Stanley Road o del mio primo album da solista, che per motivi diversi sono i lavori ai quali mi sento più affezionato. In As Is Now ho messo dentro tutto quel che mi piace, è come se avessi compresso i miei grandi amori musicali. A little bit of funk, a little bit of soul, a little bit of folk, a little bit of… whatever. Le canzoni sono dirette, alcune come Come On Let’s Go o From The Floor Boards Up sono rock’n’roll e ti arrivano dritte in faccia, pensa ai primi pezzi degli Stones, ai singoli dei Sex Pistols, Holiday In the Sun … bang! …quel feeling lì, insomma. E poi ci sono quelle più sottili, con le melodie che puntano al cuore, proprio come… non so, ti ricordi certe ballate di Otis Redding? …ecco, As Is Now è quello che un disco pop dovrebbe sempre essere. Illumination e Heliocentric avevano canzoni troppo lunghe, forse mi ero fatto prendere la mano. Ascoltate singolarmente funzionano, ma tutto l’insieme alla fine suona un po’ ridondante. Non che ci sputi sopra, sono due buoni album, ma a posteriori mi accorgo che non mi rappresentano del tutto. Questo invece è venuto fuori esattamente come volevo.
Le canzoni di As Is Now, rock’n’roll o ballate che siano, hanno in effetti un’immediatezza formidabile. La produzione è eccellente, ma c’è quella frenesia un po’ sporca da “buona la prima” che fa sembrare il disco quasi un live non dichiarato…
È così. Lo abbiamo registrato in meno di due settimane, con pochissimo lavoro di post-produzione. Credo che si avverta la freschezza tipica di un’incisione dal vivo. C’è quel senso di urgenza, quasi come se il disco si fosse creato da solo. Guarda, è andata in questo modo: avevo una ventina di canzoni pronte, il venerdì ho finito il tour, durante il weekend ho scelto i pezzi, il lunedì eravamo in studio, dieci giorni dopo il disco era finito. That’s rock’n’roll.

Hai detto che è un disco che ti rappresenta alla perfezione. Quindi immagino che il titolo sia una specie di dichiarazione auto-pubblicitaria: “eccovi il Paul Weller di oggi, enjoy him!” Mi ha fatto venire in mente, forse anche per il lettering del titolo e la foto di copertina, una vecchia usanza dei Sixties. Penso a dischi come Rolling Stones Now! o Here Are the Sonics. Il prodotto artistico e l’advertising insieme, un concetto molto pop-art…
Hai centrato abbastanza bene la questione. La copertina è davvero ricalcata su una serie di cartoline pubblicitarie degli anni Sessanta, opera di un cartellonista piuttosto famoso all’epoca. Ma è più per il gusto della citazione che per altro. Il grosso delle mie influenze viene sempre da quel periodo, sarebbe stupido negarlo, ma il giorno che mi accorgessi di fare del revival appenderei la chitarra al muro e mi dedicherei a qualcos’altro. Adoro i Sixties, lo sanno tutti, la ma nostalgia non mi interessa. Quello che voglio è fare musica che suoni contemporanea, che sia importante oggi. È il concetto che mi ha sempre guidato nella mia carriera di musicista, trent’anni fa come adesso. Le canzoni dei Jam erano giuste per il 1979, quelle degli Style Council per il 1985. E queste sono state scritte per essere ascoltate oggi, non nel 1967, nel ‘68 o in un altro fottuto anno del secolo scorso.
A quanto pare la voglia di andare veloce non ti è passata, nonostante gli anni.
Sono un vecchio mod. Non mi passerà mai.
Già, ma mi chiedevo se la pressione che senti oggi è la stessa di quando a neanche ventitré anni spedivi regolarmente ogni singolo in cima alle classifiche.
La pressione della musica, quella sì continuo a sentirla. Tutto ciò che ci gira attorno, l’industria, la stampa, le charts, beh quella roba non mi fa più né caldo né freddo. Ho imparato a gestirla. Arrivi a un punto della tua vita in cui capisci che l’unica cosa che conta è la tua integrità come musicista, il resto sono cazzate. All’epoca dei Jam si viveva talmente veloce che all’inizio non me ne rendevo neanche conto, poi quando mi fermavo un attimo montava tutta l’angoscia che proviene dal sentirsi intrappolato nel music-business. A vent’anni è difficile fronteggiare l’insuccesso, ma ti assicuro che confrontarsi con il successo è infinitamente più dura. Ti può stritolare. È una droga che agisce a due livelli, ti rifila euforia e depressione con la stessa intensità. Da un lato hai realizzato tutto ciò che sognavi la prima volta che hai preso una chitarra in mano. Immagina di avere dodici anni e di iniziare a suonare. Mentre sei lì che imiti le tue canzoni preferite alla radio, la tua massima aspirazione è formare una band. Poi quando ce l’hai, vorresti che fosse una band che incide un disco. E dopo ancora vorresti che fosse una band che incide un disco che va al numero uno in classifica. E poi, una volta che al numero uno ci sei arrivato? Che altro puoi sognare? Era quello il problema, negli ultimi tempi dei Jam. A ventiquattro anni è un bel casino, non sei più sicuro di niente. Adesso è tutto molto più semplice: il mio unico sogno è continuare a fare quel che faccio, che è scrivere canzoni. Quello è il massimo. E poi suonare dal vivo, che è il massimo dei massimi! Adoro andare in tour. Il rovescio della medaglia è l’essere lontani dalla famiglia, ma la vita on the road, nonostante tutta la noia o la malinconia o lo squallore dei tour-bus con quelle maledette partite a carte nelle quali perdo sempre, mi piace ancora adesso.
Sembra che tu ti diverta più oggi che venticinque anni fa.
È esattamente così. Anzi, è oggi che mi diverto davvero.
Ripensando alla tua gioventù con i Jam, cosa provi?
Orgoglio. Abbiamo fatto grande musica, grandi canzoni. Ma non poteva durare all’infinito.
Forse anche perché avevate iniziato giovanissimi.
Già, io avevo sedici anni. No, aspetta, quattordici.
Come è stata la tua educazione musicale?
La stessa di quasi tutti quelli della mia generazione: la radio, i dischi, John Peel. Io poi ero particolarmente fortunato, perché c’è sempre stata musica in casa. Negli anni Sessanta mia madre era ancora molto giovane, quando sono nato io aveva solo diciotto anni. Era appassionata di pop e comprava una quantità incredibile di 45 giri. Roba buona: Beatles, Elvis, Shadows, Hollies. Mio padre invece suonava il piano, anche se solo a livello amatoriale. Ho incominciato a capire che per me la musica era una cosa seria verso il ’66, ’67. Accendevo la radio e sentivo questi singoli fantastici degli Small Faces, dei Kinks, degli Who. E poi Strawberry Fields Forever, Penny Lane, Sgt. Pepper’s… la mia venerazione per i Beatles è iniziata allora e mi ha accompagnato per tutta la vita. Ancora oggi ascoltare la voce di Lennon mi commuove, ma c’è stato un periodo, subito dopo il loro scioglimento, in cui ero totalmente ossessionato, come poteva esserlo solo un ragazzino a cui hanno portato via la sua automobilina preferita. Non potevo credere che non ci sarebbe stato mai più un nuovo 45 dei Beatles. Ero talmente disperato che per anni ho comprato i peggiori dischi di Ringo Starr per consolarmi (risate, NdI).

L’amore per i Beatles è sempre stato piuttosto evidente nella tua scrittura. A volte, forse, persino un po’ troppo evidente.
Ah, ok, so dove vuoi andare a parare. Start!, giusto? Sì, è vero, assomiglia tantissimo a Taxman, ma se ho sempre negato che fosse una scopiazzatura di quella canzone c’è un motivo. Ed è che in realtà stavo cercando di copiare il suono di chitarra di Syd Barrett, non di George Harrison!
Syd è un’altra delle tue grandi passioni.
Assolutamente. Ricordo ancora quando ascoltai Arnold Layne e See Emily Play alla radio. Non avevo neanche dieci anni, ma mi si accese una luce nel cervello. Non avevo la minima idea di che diavolo stessero cantando, chi fosse questa Emily o perché questo Arnold si vestisse come una donna, ma il suono mi si conficcò nella mente all’istante.
E la musica nera quando l’hai scoperta? Immagino che da bravo mod tu fossi un fanatico del Northern Soul…
No, quello me lo sono perso. Quando andava forte quel genere di serate, verso il ’71, ’72, ero ancora troppo giovane per spostarmi da Woking fin su a Manchester o Wigan. Ne ho sentito parlare dopo, quando tutto era finito. Ma non avevo bisogno del northern soul per avvicinarmi alla musica nera. Ero già perso nella Motown, nella Stax, nella Atlantic. E poi il northern era un movimento di puristi, e io non sono mai stato un purista in fatto di black music. A me piace tutta la musica nera. Tutta. Oggi come ieri. Il soul, il jazz, il blues, l’r&b, il reggae, l’afro-beat. Adoro allo stesso modo Fela Kuti e Curtis Mayfield, John Coltrane e James Brown. Per un certo periodo, all’inizio degli anni ’90, ho ascoltato anche molto hip-hop, gruppi come i Tribe Called Quest o gli Arrested Development avevano un sacco di soul. Ho perso interesse quando il rap è diventato un fenomeno commerciale e basta.
Tu sei una delle persone ideali a cui rivolgere la fatidica domanda, ovvero: cosa è che rende così speciale la musica nera?
Credo che abbia a che fare con qualcosa di ancestrale. È il suono che abbiamo dentro, perché tutti veniamo dall’Africa. Forse è una teoria un po’ usurata, ma non saprei spiegarlo diversamente. Poi, chiaro, c’è tutta la storia della sofferenza e del riscatto del popolo nero, ma quello viene dopo. Ti rapporti a quella vicenda e questo ti fa apprezzare ancora di più quei suoni che ne sono l’espressione, ma all’origine di tutto c’è un ritmo primordiale che hai sentito migliaia di anni fa in Etiopia o nel Mali o dio sa dove, laggiù in Africa.
Ovunque fosse, comunque molto lontano da Woking. Crescere in una realtà così piccola e provinciale ha accentuato il tuo bisogno di distinguerti?
Quando vivi in un posto così è facile emergere dalla massa, farsi notare a causa dei tuoi gusti musicali o del tuo modo di vestire. Insomma, non è come vivere a Carnaby Street. Ma non ho nulla contro Woking. Non sono di quelli che odiano le proprie radici, tanto è vero che ci torno spesso, ho ancora una casa laggiù. Woking non è un posto così terribile, è una nice little town, la classica realtà suburbana tipicamente inglese, ma certo è molto, molto noiosa. Soprattutto quando sei teenager e sogni di diventare musicista e girare il mondo. Il punto non è che volessi scappare da Woking o dalla mia famiglia. La ribellione era contro tutto il mondo che avevo attorno: la scuola, le uniformi, il conformismo sociale, la musica oscena che ti propinavano le radio e la televisione a metà degli anni ’70. Fossi cresciuto a Londra avrei provato la stessa voglia di scappare. Ovviamente, avrei avuto tutto più a portata di mano. A Woking potevi giusto ubriacarti al pub e fare a botte con qualcuno il sabato sera, quello era il top del divertimento. Così nei week-end si prendeva il treno e si andava a Londra. Hai presente In The City, la canzone? Beh, parla di quello. Era un tributo alla magia che esercitava su di noi provinciali la metropoli. Lì c’era tutto: i locali, i mercatini di dischi, le boutique alternative come Sex, il negozio di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood su King’s Road. Che tra l’altro era maledettamente caro, credo di non aver mai comprato niente lì dentro.
L’attenzione maniacale per il look, l’adesione totale allo stile mod, anche quelli sono espressione di quella voglia di scappare dalla noia e dal conformismo di cui parlavi?
In parte sì. Ma in realtà ha più a che fare con la cultura pop, nella quale mi riconosco da sempre. In Inghilterra i due aspetti – musica e stile – sono sempre andati di pari passo. L’ossessione per l’abbigliamento è un tratto costante della pop-culture. Forse dipende dal fatto che molti musicisti provengono dalla working class, la ricerca della camicia o del paio di scarpe giuste è importante come quello di una Rickenbacker d’epoca. È un segno distintivo, vuol dire che ce l’hai fatta, che ti sei lasciato dietro il grigiore dei quartieri-dormitorio in cui sei cresciuto. Non a caso gli hippy erano invece quasi tutti di famiglie ricche o borghesi: vestirsi da pezzenti era il loro modo di distinguersi, loro facevano il percorso inverso rispetto a noi (risate, NdI).

Lo stesso discorso non vale un po’ anche per il punk?
Hai ragione. Molti protagonisti della scena punk erano tutt’altro che proletari, venivano da ambienti altolocati, studiavano al college. Pensa a Joe Strummer, che era comunque una persona meravigliosa e assolutamente sincera. Il fatto è che per noi che arrivavamo da fuori Londra e non avevamo fatto le scuole d’arte, non avevamo letto Debord e tutte quelle altre stronzate, la difficoltà era doppia. Oltre a essere stati presi a bottigliate nei locali della provincia, dovevamo poi anche superare la diffidenza di chi faceva parte della “scena” e ci vedeva come dei campagnoli vestiti da damerini. Ma eravamo abbastanza duri per fregarcene, suonavamo già da parecchio rispetto della maggior parte dei punk della prima ora, e quello ci ha forgiati. Non avevamo paura di nessuno.
Uno dei temi ricorrenti, nei ricordi di tanti musicisti della tua generazione – intendo quelli emersi con il punk – è proprio il senso di isolamento provato durante l’adolescenza. L’esplosione del punk fu una specie di chiamata a raccolta per tutta una tribù di esclusi. È stato così anche per te? Ti sei sentito veramente parte di quel movimento, o quell’etichetta la vedevi come una forzatura?
Non so se è mai esistita una filosofia punk, ma se c’era io mi ci sono riconosciuto in tutto e per tutto. Parlo ovviamente del punk originario. È stata fatta troppa mitologia a posteriori su quel periodo, per me il punk è durato un anno e mezzo, forse anche meno. Ma è stata una liberazione, qualcosa di cui la nostra generazione aveva un maledetto bisogno. Tu non sei inglese e non hai l’età per ricordarti com’era la scena musicale intorno al ’76. Beh, te lo dico io: una merda. Non ne potevamo più, eravamo soffocati da schifezze americane come Fleetwood Mac, REO Speedwagon, Blue Oyster Cult…
Non siete poi andati in tour assieme, con i B.O.C.?
Lasciamo stare, ho dei ricordi tremendi di quel tour. Beh, insomma, la musica americana all’epoca era penosa, e noi dall’Inghilterra rispondevamo con quelle orribili pagliacciate glam o progressive. Non puoi immaginare quale scossa sia stata andare a vedere i Sex Pistols e i Clash al 100 Club o all’Hope & Anchor. Finalmente qualcosa in cui riconoscersi, fatta dalla gente della mia età e che si rivolgeva a gente della mia età. Musica vera, umana, anche se suonata con i piedi e cantata peggio. Nel primo album dei Jam si sente proprio quell’euforia, quel brivido che ti può dare soltanto la scoperta che tutto quello che pensavi finito per sempre era invece rinato di colpo.
Quindi tu sentivi una continuità tra la musica che amavi e i punk, nonostante la voglia di questi ultimi di fare piazza pulita del passato?
Come ti ho detto, il punk per me è durato un anno o poco più. Quello è stato il momento in cui i ragazzi si sono riappropriati della cultura pop, che aveva le sue radici nei Sixties e che è ciò che a me è sempre interessato. Dopo è venuta a galla l’etica del “destroy”, il nichilismo e tutto il resto, proprio perché si prendevano alla lettera slogan come “No Elvis, Beatles or Rolling Stones in 1977”. Ma quelli appunto erano solo slogan, non ci credevano neanche i Clash. Che infatti poi hanno pescato molto dal passato, in particolare dalla musica nera. Anche per questo sentivo molta affinità con loro, nonostante le differenze di stile. Avevano un’attitudine positiva. Raccogliere la fiaccola e andare avanti, non distruggere tanto per distruggere.
I Jam, comunque, erano atipici non solo per quel che riguarda la musica. Nel bel mezzo di una rivoluzione come il punk, che inevitabilmente era anche una ribellione contro i genitori, tu ti sei scelto come manager tuo padre.
Beh, ma mio padre è sempre stato il più punk di tutti! È un vero personaggio, quello che si può definire un “good fella”. Per certi versi è il manager ideale. Ti dà entusiasmo, ti supporta, all’epoca poteva anche fare da guardia del corpo visto che da giovane era stato pugile. Senza contare che in fatto di bevute sotterrava chiunque.
Qual è il disco dei Jam che riascoltato oggi ti sembra più attuale?
Mi piacciono ancora tutti, anche se mi capita di metterli su molto di rado. Non c’è un solo album del quale non sia soddisfatto, neppure This Is The Modern World che probabilmente è il più debole di tutta la mia discografia. Forse di qualche canzone, retrospettivamente, si può dire non sia granché, ma ogni album aveva qualcosa di buono per l’epoca. Forse il mio preferito rimane Sound Affects, che probabilmente è quello che oggi sembra meno datato. Credo dipenda dal fatto che aveva questo suono di chitarra angolare, distorto, un po’ stridente. A quel tempo ero influenzato dallo stile di gruppi come i Gang Of Four o gli Wire, che adesso stanno tornando di moda.
Si sono addirittura riformati, eventualità che temo possiamo escludere per i Jam.
No way. Sarebbe come resuscitare un cadavere. Quella storia si è esaurita con The Gift. Tutto quello che potevamo dare come band lo abbiamo dato in quei cinque o sei anni. Io volevo muovermi in altre direzioni, Bruce e Rick avevano dei limiti ben precisi e preferivano accontentarsi di riscrivere altre venti o trenta Going Underground. Perfetto. È stato bello, addio. Non aveva senso continuare allora, ne avrebbe ancora meno ricominciare adesso.
Quando è stata l’ultima volta che hai incontrato gli altri due Jam?
Quando ho detto loro che il gruppo era finito. Da allora non ci siamo più incrociati, che motivo ci sarebbe? Non so cosa facciano oggi. Qualcuno mi ha detto che Rick Buckler suona in una tribute–band dei Jam.
Oh, mio dio.
Sì, è triste. Ma ognuno vive la sua vita come crede.

Il passaggio dai Jam agli Style Council coincise con un cambiamento nella tua musica, ma non solo. Improvvisamente emersero anche altri riferimenti culturali ed estetici. I Jam erano una quintessenza di “inglesità”, gli Style Council citavano Sartre, l’internazionale socialista e il cappuccino. Cos’era, una svolta esistenzialista?
No, non mi spingerei a tanto. Diciamo che era un mutamento più estetico che culturale, per usare le tue parole. È vero, uno ascoltava i pezzi dei Jam e si immaginava sempre questa Union Jack gigantesca, poi arriviamo io e Mick Talbot fotografati con la Torre Eiffel alle spalle, i café bleu, le Vespe d’epoca… Vedi, è il solito discorso della cultura pop. Noi inglesi contribuiamo con la musica, ma per tutto il resto siamo un disastro. Le cose migliori le prendiamo dall’estero, che siano i vestiti, il design o il caffè espresso. Negli ultimi quindici anni la situazione è migliorata, Londra si è europeizzata, siamo diventati trendy anche noi, ma nei primi anni ’80 c’era un’atmosfera di chiusura totale verso l’esterno. Non ne potevo più di quella mentalità insulare. Andando in tour con i Jam avevo scoperto la qualità della vita di paesi come la Francia, l’Italia, la Spagna. Poi tornavo in Inghilterra, con in mente quei bar favolosi di Roma o Parigi e mi ritrovavo nel solito pub puzzolente del cazzo. Il legame con la Francia, comunque, era anche di carattere musicale. Quando ho iniziato con gli Style Council ero nel mio periodo Blue Note, e in Europa i veri cultori e custodi del jazz sono sempre stati i francesi.
Con Our Favorite Shop però tornasti a esibire la tua britannicità. A parte la copertina che raffigurava la bottega dei sogni di qualsiasi mod, le canzoni commentavano con parole inequivocabili la situazione inglese del periodo. In Come To Milton Keynes, dove ti scagli contro i piani edilizi che trasformano il volto dei piccoli centri, sembra quasi di riascoltare l’elogio della “cara vecchia Inghilterra” del Ray Davies di Village Green Preservation Society.
Può essere. Ho sempre sentito molta affinità con Davies, che ritengo uno dei più grandi autori inglesi nella storia del pop. Nel senso che è stato uno dei pochi a parlare di realtà inglesi, come il sistema di classe o la decadenza della piccola borghesia, quando tutti scimmiottavano l’America. In realtà, per quanto ami i Kinks e in particolare quell’album, credo che ci siano delle differenze. L’Inghilterra per cui Ray ha nostalgia è idillica, non è mai esistita se non in cartolina, e lui intelligentemente se ne serve come metafora. In Our Favorite Shop volevo parlare di questioni reali, della situazione sociale di quegli anni. La crisi delle Trade Unions, l’impoverimento della classe lavoratrice…
Infatti in quel periodo toccasti l’apice del tuo impegno politico. Che giudizio dai oggi dell’esperienza Red Wedge, con la quale cercaste di mobilitare il mondo musicale contro il governo della Thatcher?
Absolute bullshit.
Ah.
Non fraintendermi. Giudico i risultati, non le intenzioni dei musicisti coinvolti. Gente come Billy Bragg o i Madness era sincera, credevano davvero di aiutare i minatori in sciopero e che si potesse dare un contributo all’abbattimento della Thatcher con qualche concerto gratuito e degli sticker sulle copertine dei dischi. Abbiamo visto come è andata. Eravamo troppo ingenui a sperare di poter cambiare le cose. Per carità, ci credevo anch’io. In quei giorni non potevi non schierarti, o stavi con i tories e la loro politica ultraliberista, o li odiavi a morte e avresti fatto qualsiasi cosa per mandarli via. Il problema è che gli artisti hanno l’illusione di poter incidere sulla realtà, ma l’industria dello spettacolo è in grado di svuotare di senso e di strumentalizzare qualsiasi iniziativa. Per la politica, oggi, o almeno per quel tipo di politica, non ho alcun interesse.
Ti definiresti ancora socialista?
Se proprio devo riconoscermi in una tradizione ideologica, sì, non ho nessun problema a dirmi ancora socialista. Ma non ha nulla a che vedere con la politica di oggi. Pensa alle opzioni che hai a disposizione: conservatori e laburisti sono indistinguibili, Blair è una Thatcher con il filtro. No, non me ne frega più niente della politica. La lascio agli altri, io scrivo canzoni.

Verso la fine dell’esperienza con gli Style Council ci fu un ennesimo cambiamento nella tua geografia musicale. Con Modernism: A New Decade cercasti di spostare il baricentro addirittura verso la house. Se quel disco, che per certi versi anticipava la fusione di tradizione rock e acid-culture, non fosse stato cassato dalla Polydor, credi che il sodalizio con Mick Talbot avrebbe potuto continuare?
Non penso. A quel punto la vicenda degli Style Council si era esaurita. Avevamo perso entusiasmo tutti. La casa discografica, il pubblico, Mick, io stesso. Sia io che lui avevamo messo su famiglia, e non eravamo così felici di farci sottrarre del tempo da dedicare ai figli per promuovere dischi che non avrebbero avuto successo comunque. Non ho idea dell’accoglienza che avrebbe ricevuto Modernism. Era un po’ troppo in anticipo sui tempi, non so quanto pubblico nuovo avremmo potuto attirare. Quanto al mio, gran parte era scandalizzata dal fatto che mi dedicassi a musica da discoteca.
A quel punto, chiusa la pratica Style Council, sei sparito per un paio di anni.
Ero senza contratto, senza un progetto, ma soprattutto senza energie. Un po’ come quando era finita con i Jam, solo che allora avevo immediatamente ricaricato le pile ed ero tornato subito in pista con Mick. Nel 1990 ero invece completamente svuotato. Per due anni mi sono preso cura della mia famiglia, ho riascoltato i vecchi dischi della mia collezione, sono tornato a rifugiarmi a Woking. Puoi chiamarlo un periodo di riflessione, se vuoi. La realtà è che pur continuando a scrivere canzoni, quelle che poi sono finite sul mio primo album da solo, mi mancava terribilmente il contatto con il pubblico. La febbre da palco, quella è una malattia da cui non si guarisce mai. Così a un certo punto mi sono detto “al diavolo, riproviamoci” e sono tornato a fare concerti. L’impatto fu terribile, mi trovai a suonare davanti a meno di cento persone per sera. Era come se qualcuno mi avesse preso per il collo e riportato ai primi tempi con i Jam, quando ci sbattevamo nei pub del Surrey.
Però hai risalito subito la china. Wildwood e Stanley Road sono diventati dei classici del rock inglese degli anni ’90. Il loro successo ti ha colto di sorpresa?
Quello di Wildwood sicuramente. Quando uscì Stanley Road ero già più preparato, anche se certo non mi aspettavo un numero uno in classifica e il disco di platino. Sono due ottimi dischi, anche se molto diversi come impostazione. Wildwood è quanto di più vicino al folk abbia mai fatto, ha delle eccellenti canzoni ma una produzione che non mi ha mai esaltato più di tanto. Su Stanley Road invece ha funzionato tutto alla perfezione, ho potuto concentrarmi maggiormente sul suono visto che i pezzi erano già stati rodati dal vivo. Non è un album che riascolto spesso. Alcune canzoni oggi mi sembrano troppo oscure, troppo intense. Ma è sicuramente uno dei lavori di cui sono più fiero.
In un’intervista, per spiegare il tuo nuovo approccio alla scrittura, ti inventasti una frase molto divertente: “mi sono messo ad ascoltare gli artisti che odiavo da giovane, quelli con la barba”.
Era vero. Subito dopo la fine degli Style Council mi sono avvicinato a un certo rock classico dei primi anni ’70 che quando ero giovane non consideravo proprio. Non che li odiassi, quei musicisti, i nemici erano altri. È che a diciott’anni avevo troppa frenesia in corpo per fermarmi ad ascoltarli. È musica che richiede concentrazione, dedizione, e io all’epoca non potevo concedergliene. Sto parlando di Neil Young, dei Traffic, di Van Morrison, di Nick Drake. Soprattutto Drake, che per me è stata una tardiva ma bellissima scoperta. La prova che la grande musica può cambiarti la vita anche molto dopo l’adolescenza.
A proposito di adolescenza, come giudichi le giovani leve del pop inglese? C’è qualche nuovo gruppo che ti piace?
Penso che sia un momento fantastico per la musica pop, in Uk. Se accendo la radio, rispetto a dieci o quindici anni fa la percentuale di canzoni che mi piacciono si è alzata notevolmente. In giro ci sono band con un suono energico ma che sanno scrivere anche grandi melodie. I Maxïmo Park, gli Ordinary Boys, i Subways, solo per dirti i primi che mi vengono in mente.
Tutti gruppi in qualche modo influenzati dai Jam. Ma tutto questo guardarsi indietro non è contrario allo spirito del “modernismo”?
Non penso che questi ragazzi vivano nel passato. Hanno un sound contemporaneo, attuale. Poi, è chiaro, hanno le loro influenze. La cultura pop non si propaga nel vuoto. Tutti abbiamo preso spunto dalla musica che ci ha preceduto, ma non ci vedo nulla di male in questo.
Compri ancora molti dischi? Oppure ti sei convertito anche tu alle nuove tecnologie?
Non parlarmi di i-pod, mp3 e roba del genere. Non la capisco, non voglio capirla. Sarà anche diventato tutto molto più comodo e veloce, ma per me l’ascolto della musica non ha niente a che fare con la velocità. Sono di un’altra generazione, quella di chi i dischi li ascoltava davvero, non si limitava a sentire un pezzo e poi se non gli piaceva lo cancellava dal computer. Sì, continuo a comprare tonnellate di dischi, quando ho tempo per andare nei negozi. È una droga, non posso farci niente.
Se dovessi partire per un viaggio lunghissimo e potessi portare con te solo un disco, un libro e un film, quali sceglieresti?
Wow, queste sono le domande che mi mandano in crisi. Allora, vediamo. Il disco sarebbe Odessey And Oracle degli Zombies. Il libro… oh God, non sono mai stato un grande lettore… potrei portarmi un libro fotografico, magari. Richiederebbe meno concentrazione. Al cinema vado pochissimo… senti, se ti dicessi tre dischi va bene lo stesso?
Ok, il viaggio è il tuo.
Allora aggiungi Village Green Preservation Society dei Kinks e A Love Supreme di John Coltrane. Ecco, diciamo che così potrei partire felice.
(da Mucchio Extra n.20, inverno 2006)
