Demolition Project: il viaggio di Polly Jean tra le macerie.
Certi dischi devi portarteli in giro per capirli. Devi provare ad ascoltarli fuori dalle quattro pareti di una stanza, dove alla fine tutti finiscono per assomigliarsi nella loro natura di prodotti di svago. E’ una specie di test. La verifica di come certa musica possa spalmarsi idealmente su quello che ti circonda, di come possa liberarsi e acquistare (ma spesso anche perdere) senso quando si posa su case, alberi, fiumi, automobili, persone che scorrono davanti ai tuoi occhi. Ho provato a farlo con l’ultimo disco di PJ Harvey, The Hope Six Demolition Project, dopo averlo ascoltato in casa una prima decina di volte. Non so se mi è servito per capirlo davvero. Più che difficile o contorto, è un lavoro volutamente opaco e che apparentemente rivela poco di sé. Nei testi c’è un immaginario ellittico e non-lineare, con passaggi bruschi dal piano metaforico a quello brutalmente realistico, dalle riflessioni in prima persona alle frasi di altri riportate non si sa quanto parzialmente o fedelmente. In alcuni casi i livelli sono così intrecciati da non riuscire a distinguerli. Eppure, ascoltare queste canzoni girando in macchina per la città ha un suo senso, perché diverse di queste canzoni sono nate proprio così. Da sguardi attraverso il finestrino di una macchina. Certo, Torino non è il Kosovo, l’Afghanistan e neanche un sobborgo disastrato di Washington, luoghi che PJ Harvey ha visitato e dai quali ha tratto molto più che semplice ispirazione. Nella mia città non ci sono depositi degli autobus sventrati, case abbandonate, crateri di bombe. Il Po è discretamente inquinato, ma probabilmente non come l’Anacostia dell’omonimo brano, avvelenato dalle scorie dei cantieri navali. Ai semafori ci sono i soliti lavavetri, ma non bambini macilenti che ti chiedono “dollar, dollar”. Sicuramente qualche scuola che “looks like a shit-hole” la si può trovare, ma persino al massimo dell’understatement sabaudo difficilmente si potrebbe definire la città come una “well-known pathway of death”, una “drug town” abitata solo da “zombies”. Mi chiedo se, nel caso un’ipotetica PJ Harvey avesse descritto così Torino, mi sarei risentito come gli abitanti del Ward 7 di Washington DC, offesi dall’impietosa fotografia virata esclusivamente al nero con cui la Harvey apre l’album. Forse sì. Poi magari avrei fatto più caso ai testi, e magari mi sarei accorto dell’inciso (unico non scritto in corsivo nel testo sul libretto del cd, tra l’altro) che prende le distanze: “at least, that’s what I’m told”. Lasciando da parte la polemica, nella quale c’entra forse anche la solita dialettica tra cugini anglofoni (“come si permette un’inglese di venire in America e dire che…” ecc. ecc.), è proprio in quel “almeno, questo è quello che mi hanno detto” che si incardina uno dei temi centrali di The Hope Six Demolition Project. O meglio: più che uno dei temi, la metodologia con cui il disco è stato ideato e assemblato. E secondo qualcuno, anche il suo limite.
Vale la pena ricordare che questo lavoro nasce dalla collaborazione, già concretizzatasi in un libro, tra PJ e il fotografo e regista Seamus Murphy. Collaborazione iniziata con i “piccoli film” grati da Murphy per le canzoni di Let England Shake, e proseguita con i viaggi di cui sopra e la pubblicazione del libro The Hollow of the Hand. È anche per questo motivo che diversi commentatori hanno tirato in ballo termini come “giornalismo” o “reportage”, mentre altri hanno parlato tout court – molto, troppo ingenerosamente – di “turismo delle tragedie” o “della povertà”. Lo stile impressionistico, rapido, spesso ad effetto di alcune descrizioni sembrano rafforzare questa interpretazione. Lo sguardo dell’osservatore sembra spesso passare attraverso il mirino di una macchina fotografica (quella di Murphy?). La narrazione è congelata in immagini, alcune straordinariamente vivide come quella che chiude, con un non sequitur spiazzante, la canzone intitolata Medicinals, nella quale l’io narrante sente la presenza di una vegetazione arcaica e di erbe medicinali – il sumac, l’amamelide, il sassofrasso – pronte a riprendersi la rivincita sulla caducità delle costruzioni umane. Nell’ultima strofa spunta, dal nulla, “una donna su una sedia a rotelle con il suo berretto dei Redskins al contrario e il suo sacchetto di plastica che dondola – da un involucro di carta sorseggia una bottiglia, un nuovo antidolorifico per le popolazioni indigene”. In un altro flash washingtoniano – Near the Memorials of Vietnam and Lincoln – PJ riporta due scene assolutamente incongrue che nonostante la loro quotidianità sembrano sovraccariche di mistero: un ragazzo che fa finta di gettare del cibo agli uccelli, solo per vederli saltare, e un nero in tuta da lavoro che svuota i cestini dell’immondizia in un tombino, “un passaggio che si apre su un mondo sotterraneo”. Qui siamo davvero al massimo dell’impenetrabilità. Ma c’è molto di non detto, di non spiegato, anche in racconti apparentemente più lineari come Chain of Keys, dove appare forse la figura più indimenticabile del disco: una vecchia donna kosovara (anche se nel testo non è specificato) che custodisce le chiavi delle case dei suoi vicini, fuggiti o forse ammazzati. “Quindici giardini ricoperti di erbacce, quindici case in rovina”. Immaginate cosa hanno visto gli occhi di questa vecchia, dice PJ, e poi aggiunge “le abbiamo chiesto ma lei non ci ha fatto entrare”. Entrare dove? Perché? Chi è “noi”? E perché l’ultima frase del testo è la sentenza sibillina della vecchia, “un circolo si è spezzato”? In canzoni come questa sono evidenti tanto la parzialità del punto di vista di chi cerca di afferrare una realtà che non gli appartiene, quanto l’incolmabile distanza che separa quello sguardo da ciò che viene visto. Che è un po’ il paradosso e il dilemma filosofico di molta fotografia che racconta situazioni e luoghi estremi (di nuovo: guerra, povertà, abusi). Fino a raggiungere l’empasse assoluta, il cortocircuito definitivo, nell’ultimo brano dell’album, quella tremenda Dollar Dollar che da un lato evoca il senso di colpa occidentale e dall’altro l’impossibilità di trovare parole che diano un senso. “All my words get swallowed”, canta PJ mentre non riesce a staccare lo sguardo da quella presenza fantasmatica che elemosina “un dollaro un dollaro” fuori dal finestrino dell’auto.
Ma cosa sarebbe un’artista, una scrittrice di canzoni, se davvero non trovasse le parole per descrivere ciò che vede? E infatti non è il caso di PJ Harvey. Le parole le ha, eccome, e sono scelte con precisione chirurgica. Tutto, in The Hope Six Demolition Project è calibrato al millimetro, ogni elemento rimanda a un altro e tutti insieme si ricompongono nel quadro complessivo. Un quadro che tuttavia ha più di una prospettiva, più di una via di fuga, ed è appunto difficile da decifrare a una prima occhiata. Eppure ha un senso. L’impalcatura comincia ad apparire chiara dopo un po’ di ascolti. Ci si accorge delle parole che ricorrono, si richiamano e fungono da segnali: “they’ve sprayed graffiti in Arabic” in The Ministry of Defence e “a blind man sings in Arabic” in The Wheel; “three lines of traffic edge past” in The Ministry of Social Affairs e “three lines of traffic pass” in Dollar Dollar; “the bus depot to the right levelled like a building site” in The Ministry of Defence, e “streets that looked like building sites” in The Orange Monkey. I “sette o ottomila uccisi a mani nude” in A Line in the Sand e i ventottomila bambini “scomparsi” in The Wheel. E poi, certo, ci sono quelle due canzoni con nel titolo la parola “ministero”, tanto fosca quanto burocratica. Lo stile narrativo scelto dalla Harvey in questo disco oscilla costantemente tra questi due estremi, tra lirica gravità e asciuttezza cronachistica, tra emotività improvvisa e gelida descrittività. Sono canzoni fatte di luoghi, ma anche di cose, di oggetti e di persone che paiono oggetti. “Fizzy drinks can, magazines, broken glass, a white jawbone, syringes, razors, a plastic spoon, human hair, a kitchen knife” è ciò che si trova nel “ministero dei resti”, insieme al “fantasma di una ragazza che scappa e si nasconde”. Ci sono strade, autostrade, vicoli, cagne incinta, capre, muli, mendicanti, gente con le braccia amputate, rifugiati che si cibano con zoccoli di cavallo. Ma tutto questo, viene da chiedersi, è ciò che ha visto realmente, PJ, o è quello che le è stato raccontato? E se lo ha visto, quanto il suo sguardo ha modificato la scena? Cosa ha scelto di privilegiare, cosa ha lasciato fuori dall’inquadratura? Di nuovo, il solito paradosso.
Nell’approcciarsi a The Hope Six Demolition Project è praticamente impossibile non fare il confronto con il precedente album di Polly Jean, Let England Shake. Usciva nel 2011 ed è quasi all’unanimità considerato uno dei picchi della sua carriera. Comprensibile che in molti vedano il nuovo disco come un sequel di quello, con il focus spostato dall’Inghilterra al mondo. “Harvey goes global” come ha sintetizzato con una certa sottile perfidia il Guardian. Se in Let England Shake lo sfondo onnipresente è un’Inghilterra sospesa tra un passato di glorie belliche e un presente indecifrabile e inquietante – tra Churchill, le cariche suicide nei Dardanelli e Black Mirror – qui come si è visto la geografia si amplia, lo sguardo non si fa tanto “globale” quanto decentrato. Una differenza sostanziale è che là era la Storia a pesare sulle canzoni e sul concept, qui è una contemporaneità altrettanto pesante e tragica ma della quale non riusciamo ancora a trovare una chiave di interpretazione. Di squisitamente britannico è rimasta la preoccupazione per il modo in cui la pianificazione edilizia, la cosiddetta gentrificazione, impatta sulle piccole comunità fungendo in definitiva da strumento utile al dominio di classe. Un tema che nel pop inglese – dai Kinks di Village Green Preservation Society ai Madness di The Liberty of Norton Folgate – ha spesso trovato spazio. Ma ciò che è simile, soprattutto, è il processo creativo. Non la musica in sé, che in Let England Shake è pastorale, elegiaca, quasi neo-classica mentre in The Hope Six Demolition Project è nervosa, graffiante, inquieta. In entrambi i casi sono tuttavia sempre le parole a guidarla, come ha spiegato più volte la stessa Harvey. Il suono e gli arrangiamenti nascono dal testo, servono a sottolinearlo e ne sono modellati. Banalizzando molto, è un modo di procedere più da scrittori o sceneggiatori che da rocker. Paradossale dunque che di rock se ne trovi come non accadeva da anni in un album di PJ. The Wheel e The Community of Hope sono grandi pezzi rock, con linee melodiche e riff assolutamente perfetti. Rock sporco e sfregiato dai fiati, in altre occasioni, con più di un riferimento a – per dirne uno – Captain Beefheart. Ma c’è ovviamente molto di più. Il linguaggio d’elezione pare essere soprattutto quello gospel, spiritual, blues (quest’ultimo in realtà appena evocato, come nel campionamento di That’s What They Want di Jerry McCain che apre The Ministry of Social Affairs), i canti da “chain gang” dei campi di lavoro e delle prigioni. Tutte forme musicali nelle quali gioca un ruolo fondamentale il meccanismo del “call and response”, che in un certo senso è la versione afro-americana del coro da tragedia greca (di nuovo, quel raggelante “I heard it was twenty-eigth thousand” di The Wheel, o la citazione esplicita dello spiritual Wade in the Water in Anacostia). Una strategia che rispecchia e rafforza la scelta narrativa di mescolare le voci e i punti di vista, quella apparente confusione di soggetti cui si accennava prima. Voci pensiero, testimonianze, citazioni, ritagli di giornale? I testi di The Hope Six…sono tutte queste cose assieme, e ciascuna ha un ruolo. Alla fine, tutto confluisce in un’idea di fondo che in qualche modo tira le fila di questa babelica pluralità: se non riusciamo a distinguere chi dice cosa, è perché non c’è separazione. Siamo tutti legati alla stessa catena, come le chiavi di Chain of Keys. Oppure, volendo vederla in maniera più ottimista, nella stessa community of hope. Loro – i migranti di A Line of Sand, la vecchia kosovara, i sottoproletari del Ward 7 di Washington DC, il netturbino che svuota l’immondizia, quelli che stanno nei palazzi sventrati dalle bombe, i ventottomila bambini scomparsi e quello che chiede “dollar, dollar”fuori dal finestrino – sono noi e noi siamo loro. E questa non è “retorica buonista”, come direbbero personaggi che non meritano neanche di essere nominati, ma una semplice presa d’atto. Asciutta, burocratica. La registrazione – in tutti i sensi – di una realtà. L’unica che abbiamo in comune.
Tra le cose che ho letto in rete riguardo The Hope Six Demolition Project, una delle più interessanti è la recensione di Consequence of Sound. È anche quella in cui viene approfondito di più il legame tra il giornalismo e la scrittura di PJ Harvey in questo disco. Riguardo alla quale ha utilizzato un’analogia azzeccata Beppe Recchia su Blow Up (riferendosi però ai testi di Let England Shake): “nella scrittura della Harvey la guerra non è raccontata con magniloquenza e nella gran parte dei casi non è nemmeno espressa nei testi, ma di questi è causa immediata, come se la penna arrivasse un attimo dopo l’esplosione”. Tristemente, è la stessa cosa che si può dire di gran parte del giornalismo odierno. Arriva sempre un attimo dopo, a raccogliere cocci e raccattare veline. Una volta serviva a raccontare quello che succedeva, poi è diventato embedded e da una decina d’anni non è neanche più quello. Semplicemente è assente. Chi è che ci racconta in tempo reale, sul posto, quello che sta accadendo in Siria, in Iraq, in Libia, in Afghanistan, in Sudan o anche solo in una periferia di una qualunque nostra città? Eppure ci sembra di saperlo. Sappiamo che da qualche parte ci sono dei cattivi, che qualcun altro un po’ meno cattivo li sta combattendo, che c’è gente che scappa e altra che muore. O almeno così ci hanno detto. La verità è che non sappiamo niente, perché non vediamo niente con i nostri occhi. E se anche ne avessimo l’opportunità, probabilmente distoglieremmo lo sguardo. Ed è proprio per questo che gli appunti che vengono mossi alla Harvey da Consequence of Sound paiono fuori fuoco. Particolarmente quando la si accusa di “reggere una cornice. È lei che sceglie dove apporla: il questo, il cosa, il come e il quando. Non esiste una oggettività assoluta. Manipolare i “fatti” è questione di prospettiva indotta. La cornice fa parte del quadro”. Ok, capisco il punto. C’è solo un piccolo particolare: e cioè che PJ non è una giornalista. Non la si può accusare di non fare quello che altri più titolati di lei hanno rinunciato a fare. PJ Harvey è un’artista, e che altro deve fare un artista se non provare a filtrare la realtà attraverso i suoi occhi e la sua poetica? Quella cornice non è qualcosa che taglia fuori parti più o meno grandi di realtà, ma qualcosa che prova a riunire in un’unica immagine ciò che ci arriva frammentato e disperso. Non è questione di oggettività assoluta. E’ questione di reggere lo sguardo. E quindi no, PJ Harvey in The Hope Six Demolition Project non sta facendo “giornalismo”, e tanto meno “turismo del dolore”. Fa qualcosa di molto più complicato, che forse si serve della tecnica giornalistica ma implica un coraggio e una profondità di riflessione che il giornalismo non possiede più. Per tutti questi motivi, alla fine, mi interessa poco stabilire se questo disco è un capolavoro o no, se è più o meno bello di Let England Shake o To Bring You My Love, se è un disco “politico” (che aggettivo abusato e vuoto) o no. A me piace moltissimo, forse penso anche che sia un capolavoro, ma soprattutto credo che sia un’opera d’arte importante e a modo suo totalmente calata nel presente. Di quanti dischi contemporanei si può dire la stessa cosa?
Un’ultima suggestione che non c’entra niente, e più che altro è frutto di sinapsi che hanno passato troppo tempo a cibarsi di musica e cultura pop. C’è quella frase di The Ministry of Defence, quella che nel testo si dice scritta a biro sotto un arco: this is how the world will end. Mi ricordava vagamente una frase simile pronunciata da qualche musicista, e alla fine mi è venuto in mente da chi e dove. È quello che dice, più o meno con le stesse parole, Pete Townshend sul palco di Monterey, prima di attaccare una delle più devastanti versioni di My Generation nella carriera degli Who. Ecco, appunto: la mia generazione. Che poi è la stessa di PJ Harvey. Una generazione che non solo non ha cambiato il mondo (non ci ha mai neanche provato, se è per questo), ma addirittura lo ha frantumato in milioni di piccoli mondi ego-riferiti e narcisisti, sulla scorta di un benessere illusorio del quale oggi paghiamo (e facciamo pagare) le conseguenze. Il fatto che ci siano artisti come PJ Harvey che provano per noi a raccogliere quei frammenti e a raccontarlo ancora, il mondo, dovremmo accettarlo come un regalo e un privilegio.
(tutte le foto in questo post sono di Seamus Murphy)
Blast from the past. 25 ristampe per il 2015.
Se stare dietro all’abnorme produzione musicale di oggi è un’impresa impossibile, mantenere la rotta con le pubblicazioni relative alla musica di ieri è pura utopia. Troppe uscite, troppi anni/dischi/generi da riscoprire, e sempre una sola vita a disposizione. La parte positiva è che la musica non è mai “troppa”, e quindi tutto sommato va bene così. Soprattutto va bene per quello che resta dell’industria musicale, che sulle ristampe o più genericamente sulle operazioni di archivio sta giocando le sue ultime fiches di sopravvivenza. Un po’ insistendo sullo sfruttamento intensivo del target di riferimento (40-50-60enni, rimasti legati all’idea di album e alla musica della loro gioventù) e un po’ avendo intuito che anche il consumatore di musica meno agée è psicologicamente più ben disposto verso l’acquisto del disco “fisico” quando si tratta di classici. Ecco quindi che trova una facile spiegazione l’alluvione di deluxe edition, ristampe espanse, cofanetti, remastered, edizioni per audiofili, e – ovviamente – “vinyl only edition” a prezzi gonfiati oltre ogni logica e pudore (l’argomento andrebbe affrontato seriamente, qui mi limito a dire che siamo a metà tra la truffa legalizzata e la circonvenzione di incapaci). Da un lato, si può pensare che si stia raschiando il fondo del barile; dall’altro che quel barile un fondo forse non ce l’abbia. Credo siano vere entrambe le cose. Ed è proprio da questo punto di vista che si possono individuare le due prospettive da cui guardare alla musica del passato: la prima è quella della nostalgia e della conferma di valori che si danno per assodati, la seconda è quella della scoperta continua (di artisti o scene musicali che non si conoscevano, o di aspetti inediti di artisti o scene musicali che si pensava di conoscere). Sono valide entrambe, ma personalmente tendo a preferire la seconda. Non c’è niente di male a ricomprarsi per la dodicesima volta Sticky Fingers o Unknown Pleasures o Astral Weeks (soprattutto se, deo gratias, finalmente rimasterizzato), ma il vero piacere secondo me sta nello scovare qualcosa che non si era ancora mai ascoltato. Trattare cioè il passato come un virtuale presente da esplorare. Per questo, così come amavo da ragazzo etichette come la Edsel e la Rhino, oggi benedico l’esistenza di Light in the Attic, Numero Group, Vampisoul, Cherry Red/Esoteric, Big Beat, ecc. La lista di seguito, con poche eccezioni, è stata stilata in quest’ottica. L’ordine è assolutamente casuale, nessuna graduatoria di merito. Ovviamente si potrebbero segnalare molti più titoli, ma poi da quel famoso barile si rischia, davvero, di non uscire più.
THE EDGE OF DAYBREAK – Eyes of Love (Numero Group)
Così come i film, esistono anche i dischi carcerari. Al contrario di Johnny Cash a San Quintino e alla Folsom Prison, gli autori di questo album finite le session non sono tornati a casa bensì in cella. Gli Edge of Daybreak erano infatti la resident band (fin troppo “resident”) del penitenziario di Richmond, Virginia. Niente gospel strazianti, comunque. Registrato nel 1979 in uno studio mobile fornito da una radio locale, sotto l’occhio e i fucili dei secondini, Eyes of Love è un piccolo gioiello di funk-disco alla Earth Wind & Fire/Isley Brothers. They should have been released.
AA.VV. – Back from The Grave vol. 9-10 (Crypt)
Bentornato dalla tomba. Il vecchio Tim Warren è vivo e vegeto, per fortuna, ma la più famosa tra le sue collane di rock’n’roll da – e per – disperati era andata fuori produzione da quasi vent’anni. A sorpresa ecco spuntare due volumi nuovi, pieni come al solito di “raw blastin’ mid-60’s punk” e grezzume amatoriale riciclato da qualche garage texano o californiano. Copertine più orrende del solito, in una delle quali si torturano degli hipster e si pianta un forcone nel culo di un dj impegnato al laptop. Non imparerai proprio mai, Tim.
GOLDBERG – Misty Flats (Light in the Attic)
Disco stampato in 500 copie all’epoca (1974), e mai riesumato prima né su vinile né su cd. Barry Thomas Goldberg aveva suonato in precedenza in una band power pop, ma in queste canzoni amare e desolatissime – incise su un due piste con la collaborazione di un altro culto da private press, Michael Yonkers – non c’è traccia di ritornelli ed esuberanza. Suono che definire “scarno” è persino un eufemismo, ruminazioni sullo stato dell’America al tempo del Watergate e della prossima caduta di Saigon, ricordi famigliari struggenti, poetica da “altra Hollywood”: può ricordare, a scelta, la versione povera di On the Beach di Neil Young oppure Elliott Smith e Mark Kozelek nati vent’anni prima.
ALAN VEGA, ALEX CHILTON & BEN VAUGHN – Cubist Blues (Light in the Attic)
L’idea di una session newyorkese a notte fonda tra Alan Vega e Alex Chilton rappresenta l’esatto contrario del concetto di salutismo, così come di quello di registrazione professionale. Sigarette, alcool e attitudine alla “come viene viene, passa quella bottiglia va’”. Probabilmente senza l’aiuto di Ben Vaughn – eccellente cantautore pop sempre un po’ dimenticato, qui in veste di batterista e ispiratore del progetto – non sarebbero venuti a capo di niente. Invece ne uscì un disco stralunato e beefheartiano, un blues notturno da intoxicated men che andò purtroppo perso in quegli anni (era il 1996) di dopo-sbornia grunge. Nella nuova edizione anche il codice per scaricare una delle rarissime esibizioni dal vivo del trio.
LIZZY MERCIER DESCLOUX – Press Color (Light in the Attic)
Se la blank generation che ciondolava nella Lower East Side tra gli anni 70 e 80 ha avuto una sua versione femminile di Rimbaud, quella era – più ancora che la sua evangelista Patti Smith – Lizzy Mercier Descloux. Non fosse altro perché lei era francese sul serio. La Light in the Attic ha ristampato diverso materiale della Descloux ma Press Color, che abbina il suo album d’esordio all’Ep Rosa Yemen, è la prima cosa da mettersi in casa per conoscere il personaggio. Minimalismo pop, funk, “mutant disco” e versioni assurde di temi di Lalo Schifrin, Fire di Arthur Brown e Fever di Otis Blackwell (re-intitolata perversamente e profeticamente Tumour: esattamente quello che ci porterà via Lizzy troppo presto).
PRETTY THINGS – Bouquets from a Cloudy Sky (Snapper)
Monumentale e definitivo tributo ai Pretty Things. Giusto così: i Pretties sono monumentali e definitivi. Con 13 cd + libro+ dvd in edizione limitata è ovviamente solo per maniaci della band (che ovviamente hanno già tutto, probabilmente in più versioni) con un certo potere d’acquisto. Ma non potevo non mettere in questa lista il gruppo con il look più figo di tutti i tempi.
DOUG HREAM BLUNT – My Name is Doug Hream Blunt (Luaka Bop)
Il suo nome è Doug Hream Blunt, e chi l’aveva mai sentito prima? Forse solo David Byrne, Ariel Pink e Dean Blunt, che pare abbia preso il nome d’arte ispirandosi a lui. Un solo album auto-prodotto e auto-finanziato a fine anni 80, manifesto di funk lo-fi che fa entrare in collisione synth e Hendrix, atmosfere caraibiche e Curtis Mayfield. La chitarra di Gentle Persuasion è semplicemente pazzesca, ascoltare per credere.
FOTHERINGAY – Nothing More (Island)
Un box set per un gruppo che ha pubblicato solo un album (più un secondo “rimaneggiato” uscito quasi quarant’anni dopo) può sembrare eccessivo. Ma qui c’è anche un live, registrazioni per la BBC e un dvd con un’esibizione televisiva. E comunque anche un solo minuto in più di Sandy Denny non è mai un minuto di troppo.
AA.VV. – Creation Artifact (Cherry Red)
Ok, la Creation che conta davvero è arrivata dopo. Ok, tutti questi pezzi assomigliano un po’ troppo uno all’altro. Ma quel mondo lì, quegli adolescenti con i capelli a caschetto e l’eskimo (da loro si chiamava “anorak”) che strimpellano i Byrds e i Velvet Underground in una Gran Bretagna più triste e grigia che mai per me ha sempre avuto un fascino irresistibile. Alla fine, veniamo tutti da lì. Più o meno.
SYL JOHNSON – The Complete Twinight Singles (Numero Group)
Doppio vinile che, come da titolo, mette in fila la quindicina di singoli che Syl Johnson incise per la Twinight. Un grandissimo del soul mai troppo celebrato, se non dalla comunità hip hop che lo ha sempre considerato un precursore.
UNWOUND – Empire (Numero Group)
Gli ultimi due album degli Unwound, apocalittici e bellissimi, prima che il futuro si richiudesse su di loro. Punk come se non ci fosse un domani, per l’appunto. E proprio per questo l’ultimo vero esempio di punk. In più demo, singoli, B-sides e inediti.
MOTORPSYCHO – Demon Box (Rune Grammofon)
Facile il calembour: da Demon Box al Demon Box Set. Non sono tra quelli che lo ritengono il miglior album dei norvegesi, ne faranno di più equilibrati e pure di più creativi in seguito, ma l’ampiezza di riferimenti e la visione rock totale di questo Everest del post-grunge mi lascia ancora stupefatto dopo più di vent’anni. E che bello riascoltare quella fantastica, luciferina versione di House at Pooneil Corner degli Airplane dal Mountain Ep.
ZAKARY THAKS – It’s the End – The Definitive Collection (Big Beat)
Ah, quelle belle raccoltone di gruppi garage dei quali conoscevi giusto un pezzo, e dei quali poi continui ad ascoltare sempre quel pezzo. Nel caso degli Zakary Thaks si tratta ovviamente di Bad Girl, irrinunciabile classicone texano da Nuggets/Pebbles, ma la sorpresa sta nel fatto che pure il resto del repertorio era solidissimo e che non c’è la solita sfilza di cover (solo una: I Need You dei Kinks).
AA.VV. – When Sharpies Ruled (Festival Records)
Gli sharpies sono stati la versione australiana degli skinhead britannici, fortunatamente de-politicizzati ma con diversi tratti in comune. Una delle tante sottoculture working class nate dalla matrice mod, della quale sapevo poco o niente. Come sempre la musica era uno dei fattori unificanti (l’altro era la diffusione del mullet di cui gli sharpies sono stati gli inventori, a loro eterna vergogna) e come sempre rappresenta la chiave d’accesso ideale. Nel caso di queste band – poche quelle “note”: i Coloured Balls, i La De Das e i Rose Tattoo – si tratta di un miscuglio di glam, hard rock, pre-punk e rock’n’roll puro e semplice. Energia e ignoranza, l’eterno binomio teen.
ALEJANDRO JODOROWSKI – The Holy Mountain OST (Finders Keepers)
Più che la montagna sacra, il sacro graal delle colonne sonore. Edita per la prima volta in vinile, è la prova che Jodorowski non ha niente da invidiare a Carpenter come regista-compositore. Se il film è allucinato, la sua sonorizzazione è pure peggio. Psichedelia, free jazz, folk, orchestrazioni western e canti mongoli: non si faceva mancare niente, il nostro esperto di tarocchi.
AA.VV. – Ork Records: New York, New York (Numero Group)
Ork Records è uno di quei nomi cult che saltano sempre fuori quando si parla della New York della seconda metà degli anni ‘70. Nessuno però ci aveva ancora pensato a riunire in un’unica raccolta i vari singoli e memorabilia dell’etichetta fondata dal manager dei Television. Little Johnny Jewel, certo, ma pure i Feelies con il nervosismo perpetuo, Lester Bangs canterino, Cheetah Chrome da solo, Mick Farren in trasferta, Richard Lloyd e soprattutto un intenso sberluccicare da Big Star. La Ork è infatti stata per un breve periodo un rifugio per l’Alex Chilton randagio di quegli anni, e in sovrappiù c’erano anche i Prix prodotti da Chris Bell. Indispensabile.
SLY & THE FAMILY STONE – Live at Fillmore East (Epic)
Sly e famiglia davanti a qualche migliaio di hippy newyorchesi nell’ottobre del ’68, nove mesi prima della messa grande a Woodstock. Qualità sonora ottima (il concerto era stato registrato in previsione di un live, poi accantonato) e band che va a pieni giri, in piena mutazione dal soul al funk psichedelico e astratto degli anni successivi.
THE STRANDS – The Magical World of The Strands/The Olde World (Megaphone)
Michael Head potrebbe giocarsi con Lee Mavers la corona del re degli sfigati dell’indie pop anni 80/90. Al contrario dello sbiellato dei La’s ha comunque continuato a produrre musica eccellente, e forse la migliore è quella che sta in The Magical World of…. Qualcosa tipo i Love cresciuti a Liverpool, mettiamola così. Molto interessante anche la raccolta parallela The Olde World, con versioni diverse dei brani dell’album e tinte folk ancora più pronunciate.
JORGE BEN – Ben (Real Gone Music)
Uno dei dischi più spogli e affascinanti dell’uomo di Mas Que Nada, fuori catalogo da secoli. L’uso della chitarra in questo disco pare semplicissimo ma riserva una meraviglia dopo l’altra. Compresa quella Taj Mahal presa a prestito (si fa per dire) da Rod Stewart per Do Ya Think I’m Sexy?
AA.VV. – Dust on the Nettles (Grapefruit)
In questi ultimi anni si è abusato del termine “acid-folk”, attribuendolo con troppa generosità a qualunque scoppiato con la barba, la chitarrina e testi che parlano di unicorni. Questi tre cd puntati sulla nebulosa che diede origine a tutto (la Gran Bretagna freak tra il ’67 e il ’72) non fissano la questione una volta per tutte, ma qualche paletto lo mettono. Ottimo bilanciamento tra nomi conosciuti e rarità, con qualche gradita sorpresa (tipo la primissima Joan Armatrading).
JOCK SCOT – My Personal Culloden (Heavenly Records)
L’unica raccolta di poesie di Jock Scot si intitola Where is my Heroin?, e questo già inquadra un po’ il personaggio. Just Antoher Fucked Up Little Druggy, come recita invece il titolo di un pezzo di questo disco inciso nel 1997 con i Nectarine N.9 e andato perso nel casino di quegli anni. L’edimburghese non è però solo un drop out reduce dal punk – uno alla John Cooper Clarke, insomma – riciclatosi nei fermenti musicali di vent’anni dopo: è un poeta alieno, con una sua visione stralunatissima del mondo che affascina in modo persino perverso. I monologhi assurdi e biascicati di My Personal Culloden sembrano opera di un Aidan Moffat con alle spalle la Bonzo Dog Band. Sempre che si riesca a immaginare qualcosa del genere.
AA.VV. – Sherwood at the Controls vol.1: 1979-1984 (On U-Sound)
Le produzioni del giovane Adrian. Ottimo compendio per chi non ha il tempo, i soldi e/o la voglia di collezionare tutti i dischi dub, reggae, punk-funk e wave su cui ha messo le mani Sherwood in quegli anni formativi. Mi ha anche ricordato che è esistito un gruppo chiamato Shriekback, che avevo preferito dimenticare ma che al riascolto mi sono sembrati quasi accettabili (la vecchiaia, che brutta cosa…)
BRUCE & VLADY – Blue Variations (Vampisoul)
Nonostante la copertina curate da un grafico cieco, questo disco è una bomba. Groove metronomico e acid-oriented, fatto esplodere da un tastierista r&b americano (Bruce) e un batterista free-jazz polacco (Vlady) conosciutisi in Svezia nel 1969. Sembra una barzelletta, invece è roba serissima. Botte di Hammond B-3 e litanie funk, tra Brian Auger e James Brown. Con persino qualche anticipazione – come mi è stato fatto notare – dei Make-Up di venticinque anni dopo.
AA.VV. – In a Moment…Ghost Box (Ghost Box)
Se il concetto vituperato di “narrazione” ha trovato negli ultimi dieci anni una realizzazione perfetta in musica, sta tutto nell’operazione Ghost Box. Nessun altro ha saputo infatti creare – con suoni e riferimenti trasversali – un mondo immaginario eppure perfettamente plausibile come l’etichetta “fantasma” inglese. Niente di meglio di questo portale per introdursi in una Narnia fatta di sigle della BBC, elettronica fai-da-te, post-psichedelia, horror low cost, paesi immaginari e brughiere visitate dagli alieni.
BOB DYLAN – The Cutting Edge – Bootleg Series vol.12 (Sony Legacy)
Chiudiamo in gloria. Qui si tratterebbe di fare esegesi biblica più che di buttare giù due righe, per cui mi limito a dire che The Cutting Edge– insieme al Live 1966, il cui ascolto andrebbe alternato a questo tutti i giorni prima e dopo i pasti – è il volume definitivo delle Bootleg Series. Nel 1965-66 Dylan era Dio e il suo profeta, contemporaneamente. Immergersi nei bozzetti, nelle alternate takes, negli appunti di lavoro di quei tre dischi là è come esaminare nei minimi particolari l’onda sismica di un terremoto di cui si sentono ancora oggi gli effetti. Naturalmente per i dylaniati senza speranza c’è la versione mammut da ottantamila cd, ma anche quella da due fa girare la testa. Anzi, a me bastano già una If You Gotta Go, Go Now con controcanto femminile, le due versioni alternative di Desolation Row (soprattutto quella appena accennata con voce, piano e basso) e quella simil-rockabilly di Just Like a Woman per vivere felice.
50 x 2015
Odio le classifiche di fine anno. Sono stupide e prive di senso. Infatti le faccio tutti gli anni, bestemmiando in urdu per il fatto di dover lasciare fuori dieci, cinquanta o cento dischi che invece vorrei segnalare ma non stanno nella fottutissima top ten che le riviste musicali ti chiedono più o meno intorno a ferragosto. Dato che qui sopra sono il capo-redattore di me stesso (come si intuisce dal fatto che pubblico un post ogni due mesi) ho tagliato le curve e ne ho messi 50, di dischi. Alè. Troppi? Sempre troppo pochi, invece. Credo che ogni vero appassionato di musica possa condividere la stessa percezione. Come ormai ripeto ogni anno a dicembre quando si tratta di fare i consuntivi, stiamo vivendo un periodo felice da questo punto di vista (almeno da questo, cazzo). La polverizzazione dell’industria musicale ha liberato energie e creatività, chi suona non ha più la necessità di conformarsi alle esigenze di un mercato inesistente, la molteplicità di approcci e di influenze musicali genera ibridi magari ancora imperfetti ma quanto meno stimolanti. Quello che si dovrebbe fare è abbracciare questa pluralità, abbandonarsi alla corrente di suoni che attraversa il nostro presente, ascoltare il più possibile e raccogliere il più possibile, trattenendo quello che ci interessa, ci spiazza, ci diverte, ci indica altre strade che potremmo esplorare. La musica interessante è tutta intorno a noi, basta andarsela a cercare. Tra l’altro è pure gratis. L’obiezione prevedibile è: ma il dovere della critica non è quello di operare delle distinzioni, di separare ciò che è valido da ciò che non lo è? Esattamente. In questo senso non vedo contraddizioni nel segnalare cinquanta dischi (ma avrebbero potuto essere tranquillamente cento, giusto per parare i “ma mancano Tizio, Caio e Sufjan!”) che a mio parere vale la pena di ascoltare. E d’altra parte, fare critica non significa neppure ridurre l’esercizio dell’analisi a “è tutta merda”, nichilismo d’accatto che purtroppo sta diventando la regola.
Questa che segue NON è una classifica. E’ una lista in ordine rigorosamente alfabetico (parziale, incompleta, fallace: non può essere diversamente, dato che riflette i miei gusti, i miei interessi e quello che mi piace cercare nella produzione musicale di oggi) di dischi che in questa annata sono rimasti nel mio setaccio. Dischi che ho ascoltato più e più volte. Facendo persino la fatica, molto spesso, di alzarmi a cambiare il lato.
A corredo, una playlist spotify.
E’ tutto. Come diceva Ritchie Valens, come on let’s go.
AFRICA EXPRESS – Terry Riley’s In C Mali (Trangsressive Rec.)
Per citare l’altro titolo di Terry Riley che conoscono tutti (più o meno): un arcobaleno nell’aria incurvata del Mali. C’entrano in qualche modo Damon Albarn e Brian Eno, ma il cuore è nero come è giusto che sia. Sillogismo di prima figura: il minimalismo si fonda sull’iterazione, l’iterazione è al cuore della musica africana, il minimalismo nasce in Africa. E qui ci torna, con l’Express. Imperdibile il video.
ALGIERS – Algiers (Matador)
Le band che si ispirano – senza aggiungere nulla in termini di creatività e contemporaneità – ai capisaldi del post-punk sono una piaga degli ultimi quindici anni. Traduttori de’ traduttori dei Joy Division. Gli Algiers almeno hanno avuto l’intuizione – come peraltro i Tv on The Radio già nel decennio scorso – di virare il grigio al nero, con accenti soul e belle siringate di blackness orgogliosa e militante.
BABA COMMANDANT & THE MANDINGO BAND – Juguya (Sublime Frequencies)
Disco segnalatomi da un collega che in questi territori non perde mai la bussola, il black vice-president Andrea Pomini. Miglior disco del Burkina Faso che ho ascoltato quest’anno. No, seriamente: il comandante Baba e i suoi mandinghi sono dei Konono N.1 più moderni e con produzione aggiornata. Afrobeat futuribile.
COURTNEY BARNETT – Sometimes I Sit and Think, Sometimes I Just Sit (Marathon Artists)
La nostra migliore amica, quella con cui vorremmo andare in tutti i festival e i negozi di dischi del mondo. Ne ho parlato diffusamente qui. Niente altro da aggiungere se non “chiama quando vuoi, Courtney”.
BOOGARINS – Manual (Other Music Rec.)
Dici “band neo-psichedelica brasiliana” e pensi subito “Os Mutantes”. Che sono indubbiamente un riferimento cultural-spirituale dei Boogarins – soprattutto gli Os Mutantes kubrickiani del secondo album – ma certo non l’unico. Ci sono anche i Quicksilver e i Flaming Lips, Marcos Valle e i Mad River, gli MGMT e gli High Llamas, sunshine pop e contestazione no-global. Affascinante lungometraggio a colori solarizzati, nel quale le accelerazioni psych si mescolano al torpore da Copacabana assolata. I rapazes cantano in portoghese invece che nel solito inglese farlocco, e questo è un ulteriore punto a favore.
THE BUTTERSCOTCH CATHEDRAL – The Butterscotch Cathedral (Trouble in Mind)
Due brani da diciotto minuti, un vago odore da concept album e la parola “suite” che spuntava in qualche recensione letta in rete. La Peste Nera, insomma. Invece trattasi di opera (rock?) gradevolissima e sempre sorprendente nei suoi stacchi di atmosfere, con echi di Tommy, Sf Sorrow, Ogden’s Nut Gone Flake e Smile. Il neo pre-prog, se questa formula potesse avere un senso (non ce l’ha, tranquilli).
CALIBRO 35 – S.P.A.C.E. (Record Kicks)
Tolti i passamontagna da banda della Comasina, i Calibro si sono messi il casco da astronauta. Sono sempre loro, comunque, con il solito groove appena più rarefatto e l’orbita deviata leggermente sul pianeta jazz-prog. Comunque una certezza.
THE CHILLS – Silver Bullets (Fire Rec.)
Bastano quei giri di basso alla Pink Frost quando attaccano le canzoni, quelle chitarre secche, quella batteria di cartone, quelle sverniciate di tastiera. E la voce di Martin Phillips, compassata e morbosa come ai vecchi tempi della “suora volante”. Ecco, basta già ritrovare tutto questo per essere contenti e rimettersi la felpa con la scritta DUNEDIN SCHOOL. Se poi la bontà media delle canzoni è pure elevata, come qui, meglio ancora. La nostalgia è tanta, ma solo per i miei diciott’anni e fortunatamente non per la qualità della musica.
DIANE COFFEE – Everybody’s a Good Dog (Western Vinyl)
Non si chiama Diane, e non è una donna. Ma per uno che ha suonato la batteria nei Foxygen e ha iniziato doppiando i cartoni della Disney, un nome d’arte cretino è il minimo sindacale. Perfetto rappresentante di questa nuova genia di musicisti-produttori-one man show che stanno ridisegnando le mappe del pop odierno, mister Coffee si diverte a mescolare tutto il mescolabile, un po’ come faceva un certo Todd Rundgren illo tempore. Il suo Something/Anything? non lo ha ancora fatto e forse non lo farà mai, ma intanto il suo circo glam è una botta di colore e fantasia.
MARTIN COURTNEY – Many Moons (Domino)
Jangle-pop come Dio (Norman Blake? Roger McGuinn? Alex Chilton? Matthew Sweet?) comanda. Più “classico” dei Real Estate, che già non sono esattamente questi mostri di imprevedibilità. Dieci canzoni deliziose nelle quali inizi a fischiettare il ritornello prima ancora che parta, eppure non rinunceresti a nessuna di loro.
DENGUE FEVER – The Deepest Lake (Tuk Tuk)
La voce orientale cantilenante fa sempre l’effetto “scena in un bar equivoco di Saigon in viet-movie a caso”, ma superato l’ostacolo – posto che lo sia – si trova uno dei dischi più frizzanti e cosmopoliti dell’anno. Stax e Motown che rilanciano le operazioni in Cambogia, latin grooves e psichedelia da Nuggets del sud-est asiatico, funk e surf. Sono di Los Angeles, ma questa è pura Khmer-xploitation.
EYELIDS – 854 (Jealous Butcher Rec.)
La copertina non è esattamente questa, e neanche il nome del gruppo visto che ora si fanno chiamare Eyelids Or. Il disco era uscito l’anno scorso ma è arrivato in Europa solo nel 2015. Va beh, che palle queste note burocratiche. Risolviamola in tre parole: paisley, power e pop. Se davanti a queste tre P avete la reazione pavloviana che ha da sempre il sottoscritto, sapete cosa dovete fare. Guitar-band dell’anno (il 1986, ovviamente).
FATHER JOHN MISTY – I Love You, Honeybear (Bella Union)
Josh Tillman è mezzo hippy e mezzo hipster (hippyster?), insomma è uno che ha tutto per starmi sulle palle. Peccato che scriva canzoni meravigliose e testi tra i più brillanti della sua indolente generazione (che è comunque meglio della mia). “Love is an economy based on resource scarcity” è una frase che definisce il presente meglio di qualunque headline giornalistica.
BILL FAY – Who is the Sender? (Dead Oceans)
Certi musicisti – certi esseri umani – non puoi fargli il torto di analizzarli criticamente e sminuzzarne la poesia (così fragile, così in bilico sul vuoto) in formulette, paragoni e riferimenti. Devi solo ascoltare, abbandonandoti alla loro dolcezza indifesa. E se ti capita di incontrarli, abbracciarli e dire loro grazie.
FUZZ – II (In the Red)
In genere Ty Segall lo reggo a piccole dosi. I Black Sabbath invece no: quando metto su un loro disco poi devo ascoltarmi di fila almeno i primi quattro. Dato che la versione-Fuzz di Segall è quella 100% sabbathiana, posso spararmi questa mappazza di fuzz e chitarre down-tuned in scioltezza, facendo air guitar e pensando di essere ancora pieno di capelli.
JACCO GARDNER – Hypnophobia (Polyvinyl)
Quella di Jacco Gardner è tappezzeria sonora, da intendersi nel miglior modo possibile. Un po’ come certi fondali di cartapesta da teatrino del primo Novecento, trasposti in era psichedelica. È più importante la trama del suono che non la struttura della canzone in sé, mai davvero astrusa ma neanche molto lineare, e comunque qui più astratta rispetto al primo disco dell’olandese. A web of sound, direbbero i Seeds. Una ragnatela acid-pop che avvolge dolcemente e inesorabilmente.
GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR – Asunder, Sweet and Other Distress (Constellation)
Il compagno Efrim e la sua banda non si discutono. Poi certo, possono esserci dischi più o meno ispirati. Questo lo è, ma soprattutto è uno dei più radicali del gruppo di Montreal. La prima parte è al limite dell’atonalità, nella seconda spunta un fantasma di melodia che in un crescendo irresistibile – e magniloquente come solo loro sanno essere – fa venire voglia di baciarsi sulle barricate, o altre cose ugualmente retoriche.
GOSPELBEACH – Pacific Surf Line (Alive)
Ho amato i Beachwood Sparks e i loro derivati come poche altre band degli ultimi quindici anni, perlomeno in ambito di rock più o meno classico. Non potevo non capitolare davanti a questi GospelbeacH, che oltre a un paio di ‘Sparks vedono schierato anche Neal Casal. Splendido esercizio di stile, ultimo arrivato in una genealogia che parte da Notorious Byrd Brothers e American Beauty. Southern California uber alles.
HOLLY HERNDON – Platform (4AD)
Il disco di ambito elettronico (detto in modo terra terra) che mi ha stuzzicato di più. Forse perché l’autrice è una donna, forse perché c’è una matrice pop anche se ben dissimulata, ma soprattutto perché si coglie una intelligenza notevolissima nella scomposizione, nei sezionamenti chirurgici di suoni e voci della Herndon. Niente pare fatto a caso, tutto sembra ricondotto a una “piattaforma” teoretica e concettuale rigorosa. Ascoltando Platform mi è venuta in mente – con tutte le mille differenze del caso – una Laurie Anderson cresciuta in un mondo completamente digitalizzato. Ci sono suggestioni peggiori.
JULIA HOLTER – Have You in My Wilderness (Domino)
Là dove la diva Julia scopre il valore della comunicatività e delle melodie, pur rimanendo algida nell’approccio e cerebrale nella costruzione dei brani. Le mancava solo questo: ora può puntare a diventare la Kate Bush o la Laura Nyro della sua generazione. Le ha già lì, nel mirino. Lucette Stranded on the Island è una canzone che da sola giustifica una carriera in musica.
TOBIAS JESSO JR – Goon (True Panther Sounds)
Quando l’ho visto dal vivo non ho potuto fare a meno di pensare a Bruno Martelli di “Saranno famosi”. Somiglianze imbarazzanti a parte, questo ragazzo ha un talento melodico cristallino. Cocktail-pop di altissimo livello.
KHRUANGBIN – The Universe Smiles Upon You (Night Time Stories)
Una volta le garage band texane si esercitavano sui sacri testi di Nuggets. Oggi, come i Khruangbin, lo fanno sulle compilation di funk, surf e psichedelia orientali. Stimolanti ibridi culturali – Thai Floor Elevators? – che ci si augura crescano e si moltiplicano. I risultati sono affascinanti, e con questa musica l’universo ci sorride.
MIKE KROL – Turkey (Merge)
Di quella manica di cazzoni garage-lo fi che ormai fa genere a sé, questo è uno dei più spassosi, insieme a King Khan (il cui disco nuovo, oggettivamente, non è granché). Un Jay Reatard conciato da poliziotto gay anni 70, con il cognome di un grande libero olandese: cosa si vuole di più?
KENDRICK LAMAR – To Pimp a Butterfly (Interscope)
Non sono mai stato, e a questo punto difficilmente potrò mai diventarlo, un cultore dell’hip hop. Da frequentatore molto occasionale (e certo non da esperto), nell’ambito mi piacciono soprattutto i dischi che si inquadrano in una visione progressiva e globale della musica nera, facendone una sinossi attendibile. To Pimp a Butterfly è quel genere di disco. E ha pure la copertina più iconica dell’anno.
SIMON LOVE – It Seemed Like a Good Idea at the Time (Fortuna Pop!)
La categoria “one-man band pop-psichedeliche” è tra i titoli più quotati nel mio borsino, ultimamente. Vedi anche alle voci Diane Coffe, Jacco Gardner, Balduin, ecc. In realtà questo scugnizzo gallese di pischedelico ha molto poco, di pop invece tantissimo. L’album di famiglia, rigorosamente britannico, parte dall’inevitabile Macca post-Beatles (di cui interpreta Dear Boy) e da Elton John (al quale dedica il titolo di un pezzo strepitoso) e prosegue con le foto di Marc Bolan, Robyn Hitchcock, Andy Partridge, Captain Sensible e dei conterranei Gruff Rhys e Euros Childs.
MBONGWANA STAR – From Kinshasa (World Circuit)
Già la composizione umana dei Mbongwana Star è materia da romanzo. L’incontro/scontro tra musica congolese e trucchi di produzione tipici della dance, dell’elettronica e del rock (tracce di post-punk e psichedelia, persino!) produce un suono fluido e ovattato allo stesso tempo, tribale e moderno. Da Kinshasa alla luna.
AIDAN MOFFATT & BILL WELLS – The Most Important Place in the World (Chemikal Underground)
Il posto più importante di tutti è casa propria, ovviamente. Con il vocione delicato (solo apparentemente un ossimoro) di Aidan Moffat, con le sue storie raccontate in quel modo ciondolante da vecchio amico che ne ha bevuta una (due? tre? ventisette?) di troppo, in effetti ci si sente subito lì: a casa. L’ironico gospel satanista di Street Pastor Colloquy, 3AM non può mancare in una top ten di canzoni dell’anno.
JIM O’ ROURKE – Simple Songs (Drag City)
Il concept sta già nel titolo. Ma è sviante, perché poi queste canzoni, benché straordinariamente melodiche, sono tutt’altro che “semplici”. Raccogliere gli indizi disseminati da Jimbo – Randy Newman, Elton John, Genesis, David Ackles e così via – è parte del divertimento. Comunque sia, un disco che ti fa esclamare di nuovo “Eureka!”, a diciassette anni dalla prima volta.
OUGHT – Sun Coming Down (Constellation)
La definizione “ indie rock” non ha più nessun senso. Ma per una band come gli Ought la spendo ancora a cuor leggero. I primi Pavement, quelli più storti, sullo stesso furgone dei Feelies.
NATALIE PRASS – Natalie Prass (Spacebomb)
Quoziente di sciccheria e sensualità altissimo, qua. Dalla cantera di Matthew E White e dei suoi Spacebomb Studios, ecco la grande speranza del pop femminile per i prossimi anni. Fantastica l’impostazione vocale della Prass, così insinuante e distaccata allo stesso tempo. Se un giorno facessi una cosa kitsch come mettermi una canzone come suoneria del telefono, userei in loop quel “our love is a long goodbye” contrappuntato dai fiati stile Allen Toussaint (una prece) che chiude My Baby Don’t Understand Me.
JESSICA PRATT – On Your Own Love Again (Drag City)
Della quasi omonima Prass, la Pratt possiede l’erotismo dissimulato ma non l’esuberanza pop. C’è la gravitas tipica di chi proviene dal folk, e più alternanza di chiari e scuri. A modo suo, comunque, anche lei irresistibile.
PUBLIC SERVICE BROADCASTING – The Race for Space (Test Card Rec.)
Il disco ideale per chi condivide una, qualcuna o tutte queste passioni: Dr. Who, Douglas Adams, le sigle del BBC Radiopohnic Workshop, l’elettronica cheap dei ‘60s, i dischi della Ghost Box e Tito Stagno.
ROYAL HEADACHE – High (What’s Your Rupture?)
Pur essendo australiani, questi ragazzi riescono a replicare le atmosfere (e persino l’accento) del più classico r&b/merseybeat inglese. Miglior disco garage dell’anno, probabilmente. “Garage” in senso lato: quello che va dai Them e Billy Childish fino agli Strypes.
SACRI CUORI – Delone (Glitterbeat)
Vecchia Romagna, ovvero la band che crea un’atmosfera. Calembour terribile, ma in fondo ci sono anche i Caroselli degli anni 70 nel bagaglio dei Sacri Cuori. Insieme a influenze tex-mex, Morricone e Piccioni, il liscio e Astor Piazzolla. Operazione raffinata e intelligente di fusione (assolutamente non a freddo) di linguaggi, capace di creare una nuova-vecchia frontiera che va dall’Adriatico al Pacifico.
SAUN & STARR – Look Closer (Daptone)
La rivincita delle maestranze. Saundra Williams e Starr Duncan Lowe sono le coriste di Sharon Jones, ma quest’anno hanno saputo fare meglio della principale (donna coraggiosa e artista splendida, comunque, alla quale auguro ogni bene). Bastano gli attacchi di Look Closer e Hot Shot per ritrovarsi in un sabato sera del ’73, con Pam Grier sul divano e un bicchiere di whisky in mano. Daptone-style totale.
JILL SCOTT – Woman (Blues Babe Rec.)
È interessante notare come il concetto di R&B suggerisca cose diverse a seconda di chi si trova davanti agli occhi questa sigla gloriosa. Jill Scott è una di quelle che può mettere d’accordo tanto i cultori del formato classico quanto i seguaci delle contaminazioni modern soul (peraltro vecchie di una quindicina d’anni pure loro). Elegantissima, ma con ironia. Più, naturalmente, canzoni (e arrangiamenti) eccellenti.
SEXWITCH – Sexwitch (Echo)
Atmosfere black magick, proprio con il “ck”di Aleister Crowley. In realtà le suggestioni sexy-demoniache sono solo evocate dalla voce di Natasha Khan, qui ottimamente spalleggiata dai Toys. L’idea è eccellente: cover di brani oscuri di psichedelia terzomondista (con l’eccezione di un pezzo di Skip Spence), suonate come se dovessero finire nella colonna sonora di un horror britannico primi anni 70. Welcome to the sabbath.
SLEATER-KINNEY – No Cities To Love (Sub Pop)
Che vuoi dire a queste tre donne meravigliose? L’unica cosa forse è “potevate metterci meno di dieci anni per rimettervi assieme”. Una delle più grandi r’n’r band femminili di sempre. Anzi, leviamo quell’aggettivo antipatico e maschilista: una delle più grandi r’n’r band di sempre, punto.
THE SONICS – This is The Sonics (Re:Vox)
Tutti a casa, boys. Sono tornati i maestri di Tacoma. Questi non sono pensionati che stanno a guardare i cantieri: questi i cantieri li fanno esplodere.
PAOLO SPACCAMONTI – Rumors (Santeria)
Mi accorgo di aver messo in questa lista tre dischi italiani in croce, e tutti strumentali. Non credo ci sia bisogno di Freud per interpretare la questione. Questo comunque non c’entra con Spaccamonti, che fa musica eccellente da anni. Suoni di chitarra incorporei, frustate noise alternate a momenti di vera e propria ecstatic peace, per citare qualcuno davanti al quale il musicista torinese non sfigurerebbe e col quale avrebbe sicuramente molto da dire.
SWAMP DOGG – The White Man Made Me Do It (Alive)
Il vecchio sporcaccione è più vivo e linguacciuto che mai. Soul-funk dritto e volgare come ai tempi in cui cavalcava i topi sulle copertine dei dischi.
TAME IMPALA – Currents (Fiction)
Ne ho parlato qui. Haters fuck off.
PAT THOMAS & KWABISHU AREA BAND – Pat Thomas &…(Strut)
Col suo bel faccione alla Isaac Hayes, Pat Thomas mi è già simpatico prima ancora di ascoltarlo. Una leggenda dell’high life a me totalmente sconosciuta prima di questo disco, al quale partecipano Tony Allen e Ebo Taylor.
RICHARD THOMPSON – Still (Proper Rec.)
Richard Thompson fa dischi magnifici da quarant’anni, peccato che siamo sempre gli stessi ad ascoltarli e ce la contiamo tra noi su quanto sia bravo. Solito tocco chitarristico alla Chet Atkins/Scotty Moore modernizzati, solita voce nasale, solita acre malinconia, solite grandi canzoni. Ottima la produzione di Jeff Tweedy: ci ha messo più cura e amore qua che nelle canzoni dell’ultimo Wilco.
TORO Y MOI – What For? (Carpak Rec.)
Dal downtempo al pop stile Teenage Fanclub/Phoenix. Un bel salto ma il ragazzo se la cava con una disinvoltura persino imbarazzante. Forza Toro, sempre.
RYLEY WALKER – Primrose Green (Dead Oceans)
Il talento chitarristico di Ryley Walker è spaventoso, e questo lo abbiamo capito tutti. Quando nella scrittura si affrancherà dai suoi santini di riferimento (Tim Buckley e John Martyn su tutti), dando briglia sciolta all’improvvisazione, ci regalerà qualcosa di memorabile. Comunque già qui ci siamo quasi.
KAMASI WASHINGTON – The Epic (Brainfeeder)
Sì, lo so. Il disco che piace alla gente che piace, quello odiato dai “veri” appassionati di jazz, l’hype e tutto quanto. Lo so. E so anche che per molti basta vedere uno col dashiki, i capelli afro, il sassofono in mano e un fondale anni 70 per (stra)parlare di Coltrane, Sun Ra e compagnia. Falsi problemi: preso per quello che è – un bignami di cose jazz, derivativo ma in gran parte estremamente godibile – riserva ottime vibrazioni, indipendentemente da quanti dischi jazz uno abbia in casa.
PAUL WELLER – Saturns Pattern (Parlophone)
Fa molto classifica di fine anno di Mojo, me ne rendo conto. “Sti grancazzi” è un commento abbastanza mod? Uno dei dischi più coraggiosi e ispirati di Paolino nostro.
NICOLE WILLIS & THE SOUL INVESTIGATORS – Happiness in Every Style (Timmion Records)
Anche se l’etichetta è finlandese – la Willis è sposata con Jimi Tenor – anche qua siamo nel più classico mondo Daptone. Revival soul con minuziosa cura dei particolari vintage, dalle tonalità dell’organo ai wah wah della chitarra, fino alla voce tra Roberta Flack e Minnie Riperton della protagonista.
WIRE – Wire (Pinkflag)
Una parola sola: classe. Una delle poche band che non ha mai sbagliato un disco in quasi quarant’anni di storia.
SARDROCK SAMPLER – Lo gnosticismo hooligan di Julian Cope.
Mentre leggevo 131, il romanzo dell’arci-druido Julian Cope ambientato in Sardegna, a un certo punto mi sono reso conto – in una sorta di illuminazione in qualche modo anch’essa arci-druidica – che nella mia vita ho visto molte più volte Julian Cope di quante abbia visto la Sardegna. L’ho anche intervistato un paio di volte, il buon Giuliano. In una di queste, una decina di anni fa, ci trovavamo in un locale torinese situato vicino alle Porte Palatine, unica rovina romana della città rimasta in piedi. Sapendo della sua passione per gli antichi monumenti, io e gli amici che mi accompagnavano facemmo notare a Cope la prossimità. Lui si fece improvvisamente serio, sotto il suo cappello da Gandalf, strinse le mani sui pantaloni di pelle e abbassò la voce in un bisbiglio. “Non disturbiamo le anime dei soldati romani che le costruirono”. Ssssh, calò il silenzio. Fu un momento di grande raccoglimento e intenso transfert storico-spirituale per tutti noi. Poi gli facemmo una domanda sugli MC5 e in due secondi si dimenticò dell’anima de li mortacci dei legionari del I secolo d.c. (lui la chiama Common Era, essendo notoriamente pagano). Ecco: in questo trascurabile aneddoto, così come in scala ben più ampia in 131, a me pare ci sia tutto Julian Cope. Uno che non sai decidere se è un mezzo genio, tre quarti di paraculo o un pazzo completo, un fanatico del rock’n’roll così come dell’archeologia “gnostica”; un esoterico gaudente e affabulatore dotato di un entusiasmo incontenibile ma anche di una soglia di attenzione non proprio altissima. In questo senso il suo romanzo d’esordio – anche se in qualche modo lo erano pure le sue due autobiografie, Head-On e Repossessed, i saggi da antropologo musicale Krautrocksampler e Japrocksampler e probabilmente (non li ho letti) i suoi studi sulle civiltà megalitiche – è come direbbe lui Ur-Copeiano. Un rollercoaster di follia assoluta ma temperato da humour molto ben calibrato, un po’ cavalcata visionaria e un po’ simpatica puttanata, in cui si aprono mille rivoli narrativi spesso abbandonati con nonchalance da conversazione post-fumata di quelle buone. In ogni caso divertentissimo. Certamente un incubo per qualunque editor, e non oso immaginare per i traduttori. Doveroso quindi il plauso a Luca Fusari, che per Elliot si è immerso nel marasma di questo travelogue psichedelico uscendone vittorioso. Se il romanzo si fa leggere con estremo piacere è merito anche della sua brillante e scorrevolissima traduzione: impresa titanica, ma del resto Fusari è abituato ai corpo-a-corpo con la prosa immaginifica di Cope (neologismi, non sequitur, storpiature, maiuscole a cazzo e così via) essendosi già occupato ottimamente degli altri suoi libri.
(il celebre album dei Neon Sardinia, sardo-nugget per eccellenza)
La Sardegna, si diceva. In 131 (il titolo riprende il nome della statale sulla quale si svolge il viaggio del protagonista Rock Section insieme alla “beata Anna”, affascinante guida isolana e trasportatrice di auto d’epoca) non è solo location onnipresente: è lo spirito-guida della narrazione. Un personaggio a tutti gli effetti, flusso di energia arcaica, sia benigna che maligna, che alla fine determina il destino degli improbabilissimi protagonisti. A tratti viene in mente il “Sardus Pater” affrontato dall’Inquisitore Eymerich di Valerio Evangelisti (non mi stupirei se Cope lo avesse letto: è roba sua). A dire la verità vengono in mente un sacco di cose. Dalla narrativa “gonzo” di Hunter S. Thompson a quella di Tom Robbins, da romanzi come I dinamitardi di Edward Abbey a film come Punto Zero (debitamente citato nel romanzo: il dj Jesu Crossu che dagli 89.9 in fm manda segnali impliciti al nostro Rock Section sparandogli le canzoni dei famigerati Brits Abroad del suo amico Mick e di vecchie psych band di Fonni e Mamoiada ha lo stesso ruolo che Super Soul aveva per Kowalski in fuga), da Robert Crumb ai Monty Python, da Richard Brautigan all’ultraviolenza di Arancia Meccanica. In fondo il cinquantasettenne Cope rimane un figlio della sua epoca, e non sorprende che abbia attinto, oltre che dal suo lato post-punk, anche da certi caposaldi della controcultura anni 60-70 assorbiti da ragazzo.
(“Last tango in Paris”, il famigerato singolo dei Brits Abroad che scatenò l’odio del giudice Hertzog. Per “Tango” si intende la bevanda)
Romanzo-patchwork, quindi. Romanzo-flusso di coscienza. Romanzo-caleidoscopio. E anche, evidentemente, romanzo imperfetto e incasinato. Si astengano quelli che con il nasino all’insù cercano la “letteratura”, perché 131 è tutt’altro. Sono abbastanza sicuro che verrà abbandonato a metà e forse anche prima da chiunque non sia appassionato di uno o più di questi argomenti: 1) Rock’n’roll 2) Droghe 3) Rave 4) Calcio e universo hooligan 4) Megaliti e misteri, 5) Julian Cope. E ovviamente la Sardegna. La mia scarsa conoscenza della regione mi impedisce di capire quanto quella che fa da sfondo a 131 corrisponda davvero a quella reale, se certe località esistano o meno, ma la sensazione è che si tratti più di una Sardegna della mente (di Julian Cope). La dislocazione non è solo geografica ma anche storica, peraltro. La storia si svolge nell’estate del 2006, con qualche divagazione (le parti più pallose e incomprensibili del libro, sinceramente) diecimila anni prima. Ma, anche qui, si tratta di una contemporaneità parallela alla nostra. Un mondo nel quale durante i Mondiali di Italia 90 sono accadute cose innominabili, per esempio, oppure nel quale il Morrison morto da tossico maledetto era Van e non Jim, che invece è vivo e pubblica poesie. In cui esistono un Iggy PCP, una Kate W. Bush e dei Nurse with Mound, e nel quale l’estate dell’amore dell’89 ha fatto da sfondo a truci vendette tra gang di tifoserie contrapposte, ma più per motivi musicali-ideologici che calcistici. L’ex star new wave Rock Section (pure qua, citazione tongue in cheek da rockettaro impenitente, dato che probabilmente è un omaggio a Scott “Rock Action” Asheton) torna in Sardegna proprio per risolvere una volta per tutte i traumi e i misteri legati alle vicende dei Mondiali di sedici anni prima. Quando lui e i suoi amici, hooligan e musicisti al seguito dell’Inghilterra, vennero rapiti e violentati in un caseificio fascista abbandonato (!) da una banda di supporter olandesi a capo della quale stava il perfido “giudice” Barry Hertzog, leader ultrà e produttore techno finito in gattabuia nonché autore dei famosissimi Scritti dal carcere (che Gramsci ti perdoni, Julian). Questo è il massimo della linearità a cui si può ricondurre la trama del romanzo, che prevede inoltre svariati viaggi nel tempo, indipendentisti sardi, divinità capitaliste (il terribile Industrialu!), dissertazioni sul socialismo, carri funebri e Panda 4×4, Shaun Ryder e aristo-rapper, dipendenze da efedra e bevande gassate. Helzapoppin’ purissimo, insomma.
(Maxi-single dei Dayglo Maradona, progetto techno di Rock Section)
Ci sono tuttavia, nel maelstrom delirante di 131, anche momenti di insolita sobrietà e serietà. La rievocazione della tragedia di Hillsborough, ad esempio, fa venire i brividi per il realismo e la crudezza delle descrizioni, e la spiegazione delle responsabilità della polizia nel disastro come di una sorta di rappresaglia thatcheriana nei confronti di Liverpool, città tra le più ribelli al pensiero unico della lady di ferro, non del tutto campata per aria. E poi volendo si possono enucleare vari temi portanti, ad esempio quello del sacrificio. Cope ne parla in una bella intervista ad Alessandro Besselva Averame sull’ultimo numero di Rumore, e riporto parte della risposta perché tutto sommato illuminante (almeno in termini-Cope): “Credo che il Grande Esperimento Occidentale cha luogo in Europa meriti le affermazioni più coraggiose e prometeiche, qualsiasi presa di posizione che nel tempo in cui viviamo ci parli di hybris”. I protagonisti del romanzo, nella loro assurdità, si sacrificano in nome di ideali difficili da capire prima ancora che da accettare ma comunque reali. E quanto alla hybris, qualcuno potrà sostenere che con questo libro Cope raggiunga in proposito vette himalayane. Ma liquidarlo come un pateracchio auto-indulgente sarebbe secondo me sbagliato e superficiale. Sotto la crosta di 131 c’è qualcosa che ribolle e che trasporta lontano, se ci si abbandona alla corrente con lo spirito giusto. E anche stilisticamente è interessante, nel suo essere un pazzesco frullato nel quale l’autore ha buttato dentro tutto ciò che gli interessa, ricordi, battute e calembour che probabilmente aveva da parte da decenni, spezzoni di recensioni da rivista musicale, frammenti di conoscenze arcane e profane. Senza soluzione di continuità si transita dal calcio alla musica alla Storia alle visioni drogate alla psico-geografia al road-movie alle citazioni filosofiche a Top of the Pops e così via. Un po’ come se la narrazione stessa fosse una serie di portali che uniscono realtà antitetiche, capovolte o speculari dalle quali entrare o uscire a piacimento. Creando ircocervi culturali a volte irresistibili. Cito solo uno dei più esilaranti: i gemelli Porcu – irriducibili e cattivissimi avversari di Rock Section, che ricordano un po’ i fratelli Dalton di Lucky Luke – che riproducono dal vero la foto interna di Pawn Hearts (quella con i Van der Graaf Generator che sembrano fare il saluto fascista) a beneficio di uno stupito Ruud Gullit e di altri calciatori olandesi durante Italia 90. Tutto molto pop, tutto molto psichedelico. Right-On, Julian!
A MINOR PLACE – Quando il pop è a casa
Da Aristotele ai box deluxe della Rhino, il binomio forma-sostanza è sempre stato un concetto fondamentale nel nostro sforzarci di interpretare il mondo. Certo, lo Stagirita poneva problemi leggermente più complicati di quelli suggeriti da una ristampa degli Shadows of Knight, ma insomma dai, siamo lì. Limitandoci alla musica pop, la risposta alla domanda “perché continuare a comprare dischi oggi che…” (quello che c’è oggi lo sapete, inutile dilungarsi) non può prescindere da quel binomio. Da anni, ormai, un disco – che sia su vinile o cd – non è più musica-in-una-confezione ma piuttosto una confezione con dentro della musica. Il che può essere letto in senso sia in negativo che in positivo. Mettendo tra parentesi la questione non del tutto irrilevante della qualità sonora, perché mi compro il disco dell’ultimo cantautore indie-psych americano invece che limitarmi a digitare il suo nome nella finestrella di Spotify? Per la copertina disegnata dal suo amico grafico underground, probabilmente. Perché mi prendo l’antologia su cd della garage band norvegese del ’66 o del funkettaro kenyano del ’73 invece che sentirmeli su youtube o scaricarmeli da un blog? Perché nel cd magari ci sono trenta pagine di booklet che mi raccontano una storia che vale la pena di conoscere. Il famoso “valore aggiunto”. Che può essere estetico e/o informativo, ma anche qualcosa di più sfuggente eppure ugualmente importante. Per esempio la passione. O l’amore.
Per cominciare a parlare dell’oggetto – termine da intendersi nel miglior senso letterale possibile – in questione cito Maurizio Blatto, che introducendo questa cosa magnifica e inaspettata chiamata Staying Home scrive su Rumore: “Se suonare e fare dischi è un gesto d’amore disperato, non ho mai visto un oggetto rappresentarlo meglio”. Probabilmente neanch’io. Proprio così, l’amore. Qui ce n’è tanto, e non solo per la musica e le cose fatte bene. Istruzioni per l’uso: Staying Home è un “album” degli A Minor Place. Gli A Minor Place sono un duo formato da Roberta e Andrea, marito e moglie di Teramo. L’”album” è in realtà un box con sei 7” per un totale di 12 (splendide) canzoni. Le copertine di ogni 7” (splendide pure quelle) sono disegnate da Marta Balducci, una giovane maestra, artista e inguaribile pop-fan. I testi di ogni canzone sono riprodotti su un cartoncino rettangolare sul cui retro stanno illustrazioni/collage, a volte spiazzanti, che riportano ai tempi gloriosi del do-it yourself e della mail art.
Finito qui? No, c’è pure una cassettina con quattro brani bonus. Insomma: un oggetto meraviglioso. Ma la sostanza, una volta tanto, è degna della forma. La musica degli A Minor Place tutto sommato è facile da definire, se proprio si deve farlo. È indie-pop, e che nessuno cominci a fare lo snob su un termine abusato e vacuo. Lo so: spesso non significa un accidente, è il solito latinorum da critici musicali. In pezzi come Summer Dress o Epic Deeva, come Shoe o Birth Without Violence e come tutti gli altri di Staying Home (soprattutto la canzone che dà il titolo al progetto) significa invece un sacco di cose che molti di noi condividono come una forma di appartenenza irrinunciabile. Significano le vetrine di Rough Trade la prima volta che si andava a Londra; i cataloghi della Sarah e della Postcard compulsati su una fanzine, o quello della Flying Nun sul retro di un EP; le antologie della Cherry Red a 99 pence; i singoletti della Jeepster, e la caccia disperata al primo album di quella strana band scozzese, Belle & qualcosa; i palchi laterali dei festival dove quattro brufolosi fanno jingle jangle come se nessun altro lo avesse mai fatto prima ma che importa, a vent’anni ti senti di essere i Byrds comunque. D’altra parte, di riferimenti ne vengono citati quanti ne volete nel testo di In the Motorcity (con curiose strizzate d’occhio a soul e country) e soprattutto in quello di The Pop Lover.
Il fatto che il nome dei Pains of Being Pure at Heart ricorra più degli altri è significativo. Perché sì, sono una band ma è anche un modo di essere, di guardare alle cose. Nelle canzoni di Roberta e Andrea – che scorrono leggere e ingenue, a volte cigolanti e sempre dolcissime come ogni buona canzone indie-pop dovrebbe essere – c’è quella purezza di cuore che già ci hanno insegnato altre coppie. Come Georgia Hubley e Ira Kaplan, o Frances McKee e Eugene Kelly, o Rachel Goswell e Neil Halstead. Non siamo a quei livelli, è ovvio, ma il mondo degli A Minor Place è quello. Chiamatela attitudine, o estetica, ma ci siamo capiti. Basti notare quanto ricorrano nei titoli nomi femminili, di stagioni e mesi (This Moon of April, Winters and Summers, Summer Dress, Ode to Monica C, The World According to Claudia).
Al d là di tutto, Staying Home è comunque bellissimo da ascoltare, da vedere, da leggere e da toccare. Certo, si deve fare la fatica di alzarsi e cambiare verso al disco dodici volte. Ma esiste forse una fatica più piacevole di questa? Tra un andata-ritorno e l’altro allo stereo, potete sempre sfogliare una rivista o far scorrere le dita sulle coste della vostra collezione di lp. Ovunque sia possibile fare qualcosa del genere, quella è casa. A Minor Place, forse, ma è il vostro. Il migliore che ci sia.
(aminorplaceband@gmail.com; soundcloud.com/a-minor-place; aminorplace.bandcamp.com)
TAME IMPALA – In difesa della specie psichedelica
Cinque anni fa mi capitò di recensire il primo disco dei Tame Impala, Innerspeaker. Non ricordo parola per parola quello che scrissi, ma certo quelle 2500 battute non erano esattamente un modello di sobrietà e di distacco critico. Il fatto era – è – che la psichedelia mi è sempre piaciuta da morire. Da che ricordo di avere le orecchie è uno dei miei generi musicali – posto che sia etichettabile in questo modo rigido, forse sarebbe meglio dire “attitudine” – preferiti in assoluto, e probabilmente se sottoponessi tutte i miei articoli a uno scanning lessicale tra i termini più usati verrebbero fuori oscenità tipo “lisergico”, “acid”, “psych”. E quindi come potevo non inginocchiarmi, tipo pastorello di Fatima davanti alla madonna (australiana), ascoltando un disco come quello? Mi sembrava ci fosse dentro tutto, o quasi, quello che mi piaceva, psichedelicamente parlando. Nella recensione, saltabeccando tra i decenni, citavo nomi come Pretty Things (che non sono affatto un modello dei Tame Impala, ma SF Sorrow è sempre un bel titolo da scrivere), quasi sicuramente i Beatles di Revolver (e vabbè), i Rain Parade (le backwards guitars, quelle cose lì) e persino, credo suggestionato dalla provenienza australe del gruppo, i Moffs. Ecco, l’ultimo nome è indicativo. Non del retroterra di Kevin Parker (che suppongo non abbia la minima idea di chi siano i Moffs), ma del mio. Per me il rock psichedelico è sempre stato, primogeniture Sixties a parte, e sempre dovrà essere qualcosa di irrimediabilmente, ineluttabilmente underground. Una roba un po’ da nerd e un po’ da esploratori coraggiosi (e non sempre i primi sono gli ascoltatori e i secondi quelli che suonano). Però dai…i MOFFS, dio santo. Per carità: bel gruppettino anni 80, che porto nel cuore per tutta una serie di ragioni (la principale è una canzone favolosa chiamata Another Day in the Sun) ma pensare che possano essere un’influenza per chicchessia venticinque anni dopo è abbastanza ridicolo. Però era esattamente così che vedevo i Tame Impala nel 2010: un bel gruppettino per noi psych-otici all’ultimo stadio, che dopo due anni avrebbe fatto un altro disco simile al primo ma un po’ meno bello, cinque anni dopo un terzo disastroso e dieci anni dopo saremmo andati a vederli suonare davanti a quindici spettatori, implorandoli di fare solo i pezzi del primo album.
(Tame Impala)
E invece. Il successo trasversale del sucessivo Lonerism, suppongo dovuto esclusivamente a una canzone (Feels Like We Only Go Backwards, ovviamente), mi spiazzò. Non essendo – per le ragioni di cui sopra – uno che pensa che la psichedelia possa mai diventare oppio (o acido) per le masse, mi chiedevo quale fosse l’interruttore nascosto scovato da Kevin Parker. La risposta di chi ne capisce era: è una questione di suono. Perché sì, è psichedelia, ma con una produzione contemporanea. Ah, ok. Ricevuto. E infatti proprio quelle cose lì – il suono, la produzione – sono diventati il perno della discussione intorno al terzo disco degli Impala. Che come tutti i terzi dischi – difficili per definizione – delle band di buon successo e per qualche strana ragione sufficientemente trendy da giustificare copertine di riviste, leak farlocchi e accanite discussioni in rete a colpi di “Mark Ronson”, “Daft Punk”, “Moroder”, “Bee Gees” e “techno-pop” (il me stesso di cinque anni fa è svenuto, nel frattempo), sta polarizzando le opinioni. Con discreta prevalenza, mi pare, di chi sta usando il bastone con la punta ferrata. Ridimensionare le band per cui prima si sprecavano i superlativi, o peggio ancora urlare al tradimento, è uno degli sport preferiti degli appassionati di musica, tanto più in tempi in cui la soglia di attenzione si è azzerata e il tempo riservato a un disco arriva a malapena a quello della sua durata (non sempre). La cosa però qui mi sorprende ancora di più dei peana sciolti per Lonerism, più che altro perché Currents a me piace tantissimo. Lo sto mandando a ripetizione, in questi giorni in cui mi sto liquefacendo per il caldo come la superficie raffigurata sulla sua copertina, e a ogni ascolto mi si rivela sempre più ricco di idee e di aperture melodiche. Penso che sia la cosa migliore che i Tame Impala/Kevin Parker abbiano fatto fin qua – sì, meglio anche del mio adorato Innerspeaker – e insomma non capisco le facce storte e i de profundis, anche da parte di gente a cui riconosco grande competenza e spesso con gusti simili ai miei.
(Tame Impala)
Le critiche a Currents mi pare girino intorno a due argomenti, non so quanto collegati tra loro. Il primo è il fatto che manchino le canzoni, che sia tutto suono e niente scrittura (ma come? non era il benedetto suono la cosa per cui piacevano tanto?). Il secondo è che la musica dei Tame Impala abbia tagliato i ponti con mamma psichedelia, e che la sbornia di Parker per dance, elettronica, club culture e soprattutto il famigerato techno-pop degli ’80 abbia avuto un effetto devastante sulla qualità dei pezzi. Partiamo da quest’ultimo punto. Più facile da confutare, semplicemente perché è un non-problema. Oddio, potrebbe esserlo. Tastiere, synth, riverberi, ritmi pre-programmati, vocoder, temo persino il synclavier (!) sono dappertutto. E non è solo questione di strumentazione, per lo più vintage o finto-vintage, ma anche di costruzione dei pezzi. Quando parte, The Moment sembra esattamente Everybody Wants to Rule the World dei Tears For Fears, ma tranquilli che c’è pure di peggio. Fantasmi di Nik Kershaw, ombre di Howard Jones, spettri dei Level 42 più spaventosi di quello di Banquo. E qual è quel pezzo degli Wham (o è Kylie Minogue?) citato in The Less I Know the Better? Meno ne so, meglio sto. Comunque sia: tutta roba che all’epoca mi faceva assolutamente schifo. Ora, non è che l’abbia recuperata – odio i revisionismi, sia in positivo che in negativo – ma posso, come dire, concepire il fatto che sia esistita, e che qualcuno abbia oggi voglia di appropriarsene. Questo al di là del senso di appartenenza generazionale che in fondo, dopo tutti questi anni, mi fa provare tenerezza persino per certi esponenti del pentapartito, figuriamoci per i synth-popper con le pettinature a culo d’anatra. Un aspetto che invece non sopporto più di quel periodo, che tuttavia è rimasto come una sorta di tic mentale in chi si è formato musicalmente in quegli anni, è la voglia di parrocchietta. L’esigenza di separare generi, stili, approcci con righe nette come i confini dell’Africa coloniale. Non era concepibile, a quei tempi – e forse sì, la cosa in quel contesto storico aveva anche un suo senso – che uno potesse suonare psichedelia e poi passare alla dance, o al pop elettronico. Era un tradimento, un’apostasia. Il fatto è che siamo nel 2015, non nel 1985. E Kevin Parker, che presumo sia nato quando io andavo a comprare i dischi dei Moffs, come tutti i musicisti della sua generazione queste distinzioni in testa non le ha. La storia della musica rock pop ecc. è per lui (loro) un enorme self service, dai cui scaffali puoi prendere quello che ti serve sul momento per il tuo bricolage. Ed è normale, è giustissimo che sia così. L’importante è come assembli questo materiale, che qualcuno può giudicare scadente. D’altra parte, Interstellar Overdrive non era ispirata al tema di “Steptoe & Son”? Non credo però che nessuno lo abbia fatto pesare a Syd Barrett. E qui torniamo alla questione psichedelia o non-psichedelia. La nuova musica di Parker e dei Tame Impala è ancora definibile con quella parola? Il dibattito mi interessa relativamente, ma se devo dare una risposta schiaccio il tasto in technicolor e dico sì, assolutamente sì. Proprio perché la psichedelia è una forma aperta, un modo di fare musica – come direbbe il mio amico John Vignola – espansivo. E anche se un pezzo come Let it Happen ha molto più a che fare con gli Air e Caribou (così, per dire) che con i Quicksilver o i Tomorrow..beh, lascia che accada. Relax and float downstream, come diceva il tipo a cui Parker ha “campionato” la voce (in certi momenti l’evocazione lennoniana è persino inquietante). L’importante è seguire il flusso. E non c’è dubbio che la musica in gran parte di Currents fluisca e faccia viaggiare come deve fare la miglior psichedelia. Una psichedelia le cui droghe odierne sono non tanto l’Lsd o l’eroina quanto la vaghezza esistenziale e dei sentimenti (Love Paranoia), la confusione riguardo il proprio posto nel mondo (New Person Same Old Mistake), la nostalgia elevata a feticcio (Past Life). E poi, se la psichedelia moderna è roba mortifera e pallosa come quei cloni venuti male degli Spacemen 3 o degli Hawkwind che infestano la scena (non so voi, ma io non sono mai riuscito a vedere un concerto degli Wooden Shjips dall’inizio alla fine), beh allora datemi Mark Ronson e Kendrick Lamar tutti i giorni prima e dopo i pasti. Con un po’ di Tame Impala.
(Tame Imp…ah no, questi sono i Moffs)
Quanto al secondo corno del dilemma (“non ci sono le canzoni!”) la risposta sta solo nell’ascolto. Non riesco sinceramente a capire, e lo dico senza polemica, come si possa sostenere che brani perfettamente strutturati e melodicamente irresistibili come Cause I’m a Man (dai riflessi molto soul, tra l’altro), Yes I’m Changing, Eventually e persino gli interludi più brevi tipo Nangs e Disciples non siano canzoni molto più delineate, a fuoco e memorabili di tanto materiale sui due dischi precedenti (dove sì che c’era coazione a ripetere). Poi, certo, non è obbligatorio farseli piacere. Ma l’ultima delle accuse che si possono fare a Kevin Parker è di non averci provato e di campare di rendita. Tutt’altro.
Nel frattempo, rileggendo questo sproloquio, mi è venuta voglia di riascoltare i Moffs. Devo ammettere davanti a me stesso che con i Tame Impala non c’entrano assolutamente niente. Però ragazzi, che canzone che era Another Day in the Sun…
AMORE, VITA E DEATH METAL IN ANGOLA
Non credo di aver mai ascoltato un disco death metal nella vita. Non è molto professionale ammetterlo, ma in fondo siamo umani. Ognuno ha i suoi limiti. I miei, con certi generi musicali, sono più che evidenti. Non è neanche che non mi piacciano: è che proprio non li capisco. Mi mancano dei passaggi, non ho i parametri per inquadrarli. Ecco, il death metal è uno di questi (verrebbe da dire anche senza “death” davanti, ma forse sarebbe troppo). Per quanto riguarda l’Angola, invece, la mia ignoranza non è ugualmente abissale, ma poco ci manca. So che è un paese dell’Africa sud-occidentale, che era una colonia portoghese e che Che Guevara voleva liberarla (lo so perché sul mio sussidiario delle elementari c’era una foto di militari bianchi e neri con la didascalia “soldati cubani in Angola”, e non capivo cosa ci facessero dei cubani in Angola; da cui si deduce che i sussidiari degli anni 70 erano politicamente molto avanzati e io non molto sveglio). Non saprei citare il nome della capitale e di altre città, non so che governo abbia attualmente e ho vaghissime cognizioni riguardo alla guerra civile (ri)cominciata negli anni Novanta e durata per un’eternità, con tutto l’inevitabile carico di morti e atrocità che una guerra, civile o no, si porta dietro. Insomma, mettendo assieme le due cose, ho il sospetto che la mia autorevolezza nel parlare di un film che si chiama Death Metal Angola sia prossima allo zero assoluto. Peccato si tratti esattamente del genere di film che ti mette addosso una voglia folle di parlarne a chiunque. Perché vorresti che tutti lo vedessero, e che tutti ne rimanessero toccati nel profondo come è successo a te. Death Metal Angola (presentato al festival torinese di film a tematiche musicali SeeYouSound) è semplicemente una delle rappresentazioni del rapporto tra musica e vita, morte, umanità e tutto il resto più commoventi e potenti che mi sia mai capitato di vedere.
Che cosa è di cosa parla, Death Metal Angola? È un documentario girato nel 2012 dal giovane regista americano Jeremy Xido, e racconta di come in una città angolana tra le più devastate dal conflitto – Huambo, all’interno del paese – una coppia sia riuscita a realizzare il suo sogno: organizzare il primo festival death metal (appunto) in Angola. Lei, Sonia Ferreira, è una donna sulla quarantina che gestisce un orfanatrofio con 55 bambini e ragazzi, tutti evidentemente figli della guerra o della miseria. Durante il conflitto, quando i bombardamenti su Huambo si erano fatti pesanti, li aveva presi tutti con lei ed era fuggita verso la costa, per poi tornare indietro quando la situazione era diventata più sicura (si fa per dire: la guerra è finita, ma la povertà e le mine sono rimaste). Una donna di enorme coraggio, pragmatismo e dolcezza, per la quale l’aggettivo “straordinaria” una volta tanto non suona affatto retorico.
Lui, Wilker Flores, è il fidanzato di Sonia e suona la chitarra. Il suo genere preferito è il death metal. Per qualche strano e forse inspiegabile caso culturale, è quello il suono che ha attecchito maggiormente tra la gioventù angolana venuta su in questi tempi di pace traballante. Un suono nato in America e sviluppato soprattutto da giovani bianchi scandinavi che diventa strumento di espressione e resistenza (a cosa? più o meno a tutto) per giovani neri africani ai quali di Satana non frega una mazza e che usano il growl spaventoso del death solo per parlare della loro vita di tutti i giorni. Surreale, ma fino a un certo punto. Soprattutto dal punto di vista musicale, come spiega benissimo Wilker quando paragona la ritmica marziale e spietata del death con quella che sta alla base di molta musica popolare africana. Insomma: anche il death metal scopri che alla fine è nato in Africa, come tutto il resto. Wilker si esercita di notte attaccandosi a un generatore di corrente e alla luce dei fari di un pick-up, insegna ai ragazzi dell’orfanatrofio scale e riff, tiene i contatti con altre band sparse per il paese tramite un blog, e ovviamente dà una mano a Sonia. Che è il centro focale del racconto, il vero generatore di energia al quale tutti si attaccano. Fino alla fine non si capisce se ‘sto benedetto festival riusciranno a metterlo in piedi, ma quando li senti entrambi, Sonia e Wilker, parlare una delle difficoltà che deve affrontare tutti i giorni in una situazione esistenziale che per noi non è neanche immaginabile, l’altro del perché la musica è così importante per ricostruire una parvenza di futuro o anche solo per tirare avanti, beh anche se non conosci ancora il finale hai la certezza che ce l’avrebbero fatta. E infatti ce la fanno. Le band arrivano sui furgoni scassati da tutto il paese, il palco finiscono di montarlo tipo dodici ore dopo l’inizio previsto, i generatori partono a calci, la location è uno spiazzo desolato alla periferia di Huambo e il pubblico forse sono solo quelli delle band, i loro amici, i 55 ragazzi dell’orfanatrofio e qualche abitante della zona. Ma quando attaccano a suonare, quella è la loro Woodstock. Lo dice Sonia, abbracciata a Wilkes, e non puoi che darle ragione con tutto il cuore.
Non sono un critico cinematografico, non ho le competenze per dare un giudizio sul documentario. A me è sembrato bello anche sotto l’aspetto tecnico, con un andamento molto ben calibrato del racconto nel quale le parole dei protagonisti si alternano con le immagini della vita a Huambo e, alla fine, del festival. Quando vedi dei bambini africani giocare a pallone vicino a case sventrate dalle bombe il rischio del ricatto emotivo è sempre dietro l’angolo, ma a me è parso che l’occhio del regista si sia posato in modo molto naturale sulla realtà che ha descritto, senza la minima intenzione di tirarne fuori una brochure terzomondista per chi ha la lacrima facile. Ma il punto davvero importante, almeno per me, è un altro.
Cercherò di spiegarmi evitando il pietismo e il senso di colpa occidentale, anche se non è facile. Ciò che un film ( ma si potrebbe anche chiamare reportage) come Death Metal Angola trasmette è qualcosa che va al di là della morale universale – e consolatoria – del credere in se stessi o nei propri sogni contro tutte le avversità. È qualcosa in realtà di molto più specifico, slegato dal contesto pur terribile in cui si trovano i protagonisti del documentario. Qualcosa che ha che fare con la musica. Il suo potere salvifico, il nostro modo di rapportarci ad essa, lo spazio e il ruolo che le diamo nelle nostre vite. E questo “qualcosa” è tutto racchiuso in ciò che dicono Sonia, Wilkes e gli altri quando parlano della loro musica preferita. Per loro – lo affermano ripetutamente – è ciò che permette di esprimere tutto il groviglio di emozioni che hanno dentro, di raccontare la loro realtà, di combattere la frustrazione. Fossimo in Italia, qualcuno direbbe – con una frase che detesto visceralmente – che per quei ragazzi ascoltare musica sia un “atto politico”. Invece lì sono in Angola, in un posto dove ogni passo che fai rischi di saltare in aria per una mina, e ogni famiglia ha almeno una decina di morti per la guerra. Un posto dove non puoi sprecare preziosi minuti di connessione internet scrivendo menate su facebook. Un posto dove per fare suonare quattro o cinque gruppi insieme puoi metterci anche due o tre anni di organizzazione. E insomma, loro se ne sbattono dell’”atto politico”. Per loro è qualcosa che li aiuta a vivere. È una passione. E la vivono senza mediazioni intellettualistiche, nella forma pura che le passioni devono sempre avere.
Qui arriva la parte moralistica, e me ne scuso. Ma davvero, davvero non ho potuto fare a meno di pensare a come la musica viene vissuta – non sempre, non da tutti, ma comunque in modo ormai troppo diffuso – nel nostro mondo annoiato e disincantato. Ridotta a accessorio secondario della propria personalità, a 140 caratteri nei quali un disco ascoltato mezza volta su Spotify diventa inevitabilmente o “capolavoro!” o “una merda”. Un mondo nel quale a neanche trent’anni sono già tutti nostalgici di qualcosa che magari non hanno neanche vissuto, nel quale il meglio è sempre stato prima, “oggi non esce più niente di interessante”, che palle, che noia, dai facciamo un bel post ironico sul nuovo dei Blur o di Sufjan Stevens, tanto domani ce lo saremo già dimenticato. Un mondo nel quale il direttore di una importante rivista musicale, molto glamour, si permette di scrivere che per lui “la musica è morta con Ian Curtis”. Oh davvero signora mia? E allora perché ne parli? Ecco, tutto questo i metallari angolani non sanno neanche cosa sia. Conta solo la musica. Che, attenzione, non chiamano mai “metal” o “death metal”. No, la chiamano sempre “rock”. ROCK. Una parola che ormai mi fa accapponare la pelle, come a tutti credo. Quando sento qualcuno dire che quella tal cosa “è rock”, so già che mi farà schifo. Poi guardo Death Metal Angola ed è come se in quelle parole, in quei volti, nel loro modo di ascoltare e di suonare si rendesse al rock una dignità persa ormai da tempo immemore. Dicono “rock” come noi non potremo mai più farlo. Con la stessa intenzione, cioè, dei teenager che negli anni ’50 sfasciavano i cinema in cui si proiettava Il seme della violenza, di quelli che nei ’60 provavano nei garage, di chi ha preso una chitarra in mano dopo aver sentito i Ramones oppure un microfono e un giradischi dopo aver sentito i Public Enemy. Non la musica dei vecchi che si illudono ancora di essere giovani, ma dei giovani che hanno bisogno di una cosa come quella per sopravvivere al fatto ineluttabile di diventare adulti. Qualcosa di molto, molto importante. Come diceva qualcuno, “a matter of life and death”. O, in questo caso, death metal.
COURTNEY BARNETT – Slacker sarai te.
La scheda wikipedia su Courtney Barnett inizia proprio come una canzone di Courtney Barnett. “Born 1987 or 1988”…ma come? Neanche fosse un calciatore del Ghana. Il fatto è che uno si immagina proprio lei che alla domanda “quando sei nata?” risponde “boh: 1987, o 1988…”. Poi scrolla le spalle, scuote il ciuffo e prova un riff di Lou Reed alla chitarra. Ha questa meravigliosa capacità, Courtney Barnett, di irradiare un beato, assoluto, intangibile menefreghismo, eppure nonostante questo di suscitare l’associazione automatica con aggettivi gne gne – tipo “deliziosa” o “adorabile” – che sembrano nati apposta per descrivere una buffa creatura come questa. Per non parlare di quell’altro abominio lessicale da critichini musicali di cui si abusa in qualunque articolo che la riguardi: “slacker”. Che in teoria dovrebbe essere l’attitudine pressapochista e da imbranati nei confronti delle cose della vita, compresa la musica. Niente di più falso, parlando di lei (ma identico discorso valeva per i primi per i quali venne coniato il termine, cioè i Pavement). Se uno le ascolta attentamente, le canzoni di Courtney Barnett, capisce subito quanta rifinitura, quanta attenzione ai particolari, quante prove, quanta musica metabolizzata stiano dietro a quelle filastrocche apparentemente sbilenche e verbose. Se uno le ascolta attentamente, d’altra parte, ammetterà pure che in giro al momento c’è pochissimo che risulti più divertente, più fresco, più eccitante, più arguto, più figo, più…ok, lo dico: adorabile e delizioso di quelle canzoni.
Sometimes I Sit and Think, And Sometimes I Just Sit, primo vero album per la ragazza australiana (finora c’erano stati solo due EP, poi riuniti assieme), è in assoluto il mio disco preferito di questo primo – peraltro eccellente – quarto di 2015. Il parametro cui mi affido per stabilirlo è molto semplice: il numero di ascolti ripetuti. Sometimes I Sit ecc ecc. è un lavoro che ti obbliga a rimetterlo su in loop. Non perché sia particolarmente complicato – è esattamente il contrario – ma perché è contagioso in un modo persino ridicolo. In realtà, sotto la superficie liscia di questo rock’n’roll al limite dello spoken word ci sono increspature che si colgono solo dopo un po’. All’inizio si rimane irretiti sotto il tiro della mitragliatrice spara-parole barnettiana, solo dopo si cominciano a cogliere le sfumature nella voce apparentemente scazzata in corrispondenza di passaggi significativi nei testi, e lì si intuisce quanto il mondo di Courtney sia molto più articolato di quel che sembra. Ci sono del resto alcuni elementi che ricorrono, e fanno quasi da paletti indicatori. Ad esempio l’indeterminatezza o i non sequitur con cui si chiudono diversi brani, il che può essere sia un ricercato effetto di spiazzamento che lo specchio di una genuina confusione. Qualche esempio: “I’m a fake, I’m a phoney I’m awake I’m alone I’m lonely…I’m a scorpio” (Pedestrian at Best), “what do I know anyhow?” (Dead Fox), “All I wanna say is…” (Kim’s Caravan), “I wanna go out but I wanna stay home” (Nobody Really Cares If You Don’t Go to the Party), “lover, I’ve got no idea” (Boxing Day Blues). Per non parlare del modo in cui viene concluso il monologo interiore, tutto incentrato sulle proprie ossessioni, di Small Poppies: “una volta mi odiavo ma ora penso di stare bene/ho sognato di ucciderti con un attaccapanni”.
Forse è per passaggi come quello che in tanti tirano in ballo l’orrido “slackerismo”, e si citano come riferimento i Nirvana. Altri motivi non ne vedo, men che meno dal punto di vista musicale. Mi stupisce sempre, quando leggo certe recensioni, l’incapacità di molti di accettare il fatto che sia esistita della musica anteriore al 1991. I punti di riferimento della Barnett, almeno i principali, stanno lì. Che senso ha parlare di Sharon Van Etten o Angel Olsen, per dire, al di là del fatto incontestabile che sono tutte giovani donne che suonano nello stesso periodo storico? E che c’entra Kurt Cobain, al di là del fatto altrettanto incontestabile che pure lui suonava la chitarra? Va a sapere. Quando poi bastano i primi venti secondi del pezzo d’apertura, Elevator Operator (titolo uguale a quello di un brano di Gene Clark: sicuramente è casuale, ma mi piace pensare di no) per cogliere al volo uno dei modelli ispiratori. È quell’eterno tredicenne in overdose di milkshake chiamato Jonathan Richman. Quello del primo disco dei Modern Lovers, soprattutto. Il ritmo anfetaminico e squadrato – Bo Diddley + Velvet, l’addizione perfetta – con cui si narra questa impagabile storiella urbana ha lo stesso tiro di Roadrunner del vecchio Jojo. Il protagonista è un ventenne che andando al lavoro e sbocconcellando la sua colazione sulla metropolitana decide che basta, ne ha fin sopra i capelli della sua prigione quotidiana. Il suo sogno è quello di fare il ragazzo dell’ascensore, e proprio in ascensore incontra una spaventosa milf piena di botox, con la “pelle così tirata che si vede lo scheletro”, “una borsa di coccodrillo”, “un ciondolo di tartaruga sul petto”, “l’alito profumato alla Vickers”. Insieme raggiungono il tetto del grattacielo, e la donna a un certo punto pensa che il ragazzo voglia buttarsi di sotto: “Don’t jump little boy, don’t jump off that roof! You’ve got your whole life ahead of you, you’re still in your youth. I’d give anything to have skin like you.”. Ma lui vuole solo fare l’elevator operator, mica ammazzarsi. La capacità descrittiva racchiusa nei particolari è fenomenale, e l’attacco nel quale si presenta il protagonista, sorta di well respected man anzitempo – “Oliver Paul, twenty years old, thick head of hair worries he’s going bald. Wakes up at a quarter past nine, fair evades his way down the 96 tram line. Breakfast on the run again, he’s well aware he’s dropping soy linseed vegemite crumbs everywhere” – non ricorda forse Ray Davies?
Nomi grossi. E allora facciamo subito il più grosso di tutti e leviamoci il dente. Il flusso di coscienza di Pedestrian at Best fa venire in mente il Bob Dylan di tirate logorroiche come Subterranean Homesick Blues. Ok, quasi. È più che altro una questione di tecnica di scrittura, che Courtney padroneggia ottimamente. Ci sono rime ispirate (“give me all your money and I’ll make some origami, honey”), allitterazioni brillanti (“I must confess I’ve made a mess of what should be a small success but I digress at least I’ve tried my very best I guess”, “erroneous, harmonious, I’m hardy sanctimonious”), abbinamenti che in due parole composte definiscono en passant una generazione (“under-worked and over-sexed”). Tutto questo, ovviamente, a una velocità di crociera garage-punk che non molla per un secondo. Neanche Allen Ginsberg riuscirebbe a starle dietro con i cartelli.
Poi c’è un altro aspetto interessante. È l’alternanza – che spesso diventa contrapposizione – tra la quotidianità delle situazioni e il surrealismo nel quale sfociano certi train of thoughts della Barnett. La “poesia del quotidiano” è una formula scontata, ma non saprei come descrivere in altro modo il testo di un brano come Depreston, incentrato su un rituale pallosissimo cui tutti ci sottoponiamo varie volte nella vita come l’andare a vedere un appartamento da affittare. La protagonista (che poi è sempre lei, Courtney) arriva nel posto – un “Californian bungalow in a cul-de-sac” – e mentre la padrona di casa le magnifica l’alloggio lei non riesce a non far vagare la mente, ricostruendo vite possibili a partire dagli oggetti. “Then I see the hand-rail in the shower, a collection of those canisters for coffee, tea, and flour, and a photo of a young man in a van in Vietnam. I can’t think of floor-boards anymore, whether the front room faces South or North and I wonder what she bought it for… “. In Dead Fox invece la troviamo a fare la spesa, con l’amica Jen che (qui lo metto in italiano perché è più divertente) “insiste nel voler comprare verdura bio, all’inizio ero un po’ scettica perché in fondo un po’ di pesticidi non fanno male a nessuno. Non avendo mai molti soldi prendo quello che costa meno al supermercato ma è tutto gonfiato di schifezze, un amico mi ha detto che nelle mele ci mettono la nicotina”. Non quel che si dice una coscienza ecologica sviluppatissima, ma è proprio quello il bello. L’io narrante di Courtney Barnett non è mai paternalistico o predicatorio, è fondamentalmente un cazzone disinformato come tutti noi. Ma poi – cosa che non tutti noi sappiamo fare – è in grado di tirarti fuori immagini poetiche strepitose come in Kim’s Caravan, quando racconta di “una foca morta sulla spiaggia” e di un vecchio che dice “l’avevo già salvata tre volte questa settimana, suppongo volesse davvero morire”. Qui risuona una sorta di fatalismo alla Vonnegut, e a pensarci bene la chiosa a quasi tutte le canzoni della Barnett potrebbe essere un rassegnato “così va la vita” che non risolve nulla ma in fondo spiega tutto. Naturalmente questo vale anche in situazioni comiche – la ragazza ha un grande senso del comico; non dell’ironia, e meno male perché della fottuta ironia non se ne può davvero più – come quella descritta in Aqua Profunda!, in cui lei nuota in piscina e cerca di impressionare un tipo nella corsia di fianco, rischiando però di annegare a causa della sua endemica “mancanza di atletismo”. Povera, goffa Courtney.
Quindi, in definitiva, di cosa parlano le canzoni di Courtney Barnett? Di lei, sostanzialmente, ma senza quella tendenza a rimirarsi l’ombelico spirituale tipica di quelli che una volta si chiamavano “singer/songwriters”. Parlano della meravigliosa assurdità inscritta nella normalità, o forse il viceversa. Di guardare il giardino e non decidersi a tagliare l’erba, o anche solo a dare una svolta alla propria vita. Di infiltrazioni d’acqua sul soffitto tra le quali spunta un Gesù accigliato. Della infinita tristezza del giorno di Santo Stefano. Di foche spiaggiate e verdure bio. Courtney Barnett non la smena con tutto quello che sembra ossessionare così tanto cantautorato “indie”, femminile o maschile che sia: cose tipo il post-moderno, il sesso, le gender-politics, i feticci pop, le storie d’amore finite male, i soliti cliché. Si limita (?) ad applicare il suo sguardo un po’ disincantato e un po’ spaesato alla realtà, traducendolo in canzoncine irresistibili e dando una possibile nuova chiave per interpretarla, quella realtà. O forse per sopportarla.
Recentemente ho letto un bellissimo romanzo di Ben Lerner, “Nel mondo a venire”. Mi rendo conto che queste connessioni sono sempre un po’ arbitrarie e casuali, ma mi è venuto spontaneo accostarlo a questo disco. Lo scrittore americano, poco più vecchio della Barnett ma comunque appartenente alla stessa generazione sfasata, fa in forma letteraria quello che Courtney fa in forma rock’n’roll: provare a ricostruire una visione del presente partendo dalle cose, dalle persone che ci stanno attorno, dalla quotidianità. Magari per intravedere persino un futuro. Una nuova forma di pensiero (o linguaggio) debole, se vogliamo, ma a modo suo molto efficace. Confortante, ma non consolatorio. Cito dal risvolto di copertina: “E’ una ricerca ambiziosa, soprattutto in un’epoca in cui immaginare il futuro è diventato difficile, e questa difficoltà cambia profondamente il nostro rapporto con il presente e con il passato, con le persone che ci stanno accanto. Allora bisogna guardarsi intorno, scrutare la città, le sue strade, i suoi abitanti, con lo sguardo consapevole della storia e della complessità, col gusto dell’esploratore che ispirato dal poeta Walt Whitman si nutre nelle sue peregrinazioni dello spettacolo della moltitudine e della pienezza”.
Ma del resto, come direbbe Courtney Barnett, what do we know anyhow?
100 DISCHI DA DIMENTICARE
C’era una volta un giornale chiamato “Mucchio Extra”. Cominciai a collaborarvi dal numero 2, nel giurassico 2001, e ci ho scritto fino a quando non è diventata tutt’altra cosa (pur mantenendo lo stesso nome). In ogni numero della rivista c’era una rubrica nella quale si prendevano in esame 100 (o 50) dischi relativi a un genere o a un’epoca particolari. Ovviamente, quelli che secondo la redazione erano i migliori o più rappresentativi in quel tale ambito. Con un’unica eccezione: quella della shit-list che faceva bella (?) mostra di sé nel n.9 (primavera 2003) di Extra. Il titolo era chiarissimo: “100 dischi da evitare”. L’idea venne a Federico Guglielmi, il direttore della rivista, che qui spiega tutti i why e i because dell’infame lista. E anche perché, dopo una dozzina d’anni, si è deciso di riesumarla in rete. Oggi come allora, d’altra parte, il motivo di quella zingarata giornalistica si può condensare in tre parole: just for fun. Niente da prendere troppo su serio. Come il rock in generale, del resto.
Il grosso delle schede le trovate sul blog di Guglielmi Ultima Thule e su quello del Venerato Maestro Eddy Cilìa. Qui di seguito i miei contributi.
Nel caso qualcuno volesse lamentarsi, sappiate che il reato di vilipendio di disco brutto va in prescrizione esattamente dopo undici anni. Spiacente.
EXPLOITED – Punk’s Not Dead (Static, 1981)
Quando ci si accorge che un genere musicale è in declino? Semplice: quando appaiono i gruppi che di quel genere sono l’involontaria parodia. Nel caso del punk, nessuno più degli Exploited si adoperò per ridurlo al ruolo di caro estinto, sigillandolo in una bella cassa di pino foderata di luoghi comuni. L’epitaffio? Punk’s Not Dead, ovviamente. Una scritta che nei primi anni ’80 si vedeva un po’ dappertutto, dai cessi delle università agli zainetti di improbabili punk nostrani con capelli sparati in aria e orribili pantaloni leopardati. Un segno del successo che gli Exploited riscossero in quel periodo tra gli orfani del “no future”, disperatamente alla ricerca, in anni di riflusso, di qualche figlio di secondo o terzo letto dei Pistols. Il gruppo di Edinburgo, guidato dal rozzissimo Wattie Buchan detto l’ultimo dei mohicani per via della cresta (temiamo che dei mohicani veri l’avrebbero rasato a zero e appeso a un totem pur di non sentirlo cantare), capì che con qualche “fuck” buttato lì a caso, una manciata di slogan faciloni (“I Believe In Anarchy”, “Sid Vicious Was Innocent”, “Fuck The Mods” ecc.) e due accordi tirati via alla meno peggio si poteva sbarcare il lunario. L’unico elemento di genialità sta nella scelta del nome, che esorcizzava la grande paura dei punk puri e duri (l’exploitation da parte del sistema, appunto). Tutto il resto – dai testi infarciti di retorica proletario-antagonista-giovanilista alla musica sguaiata (non saper suonare, a volte, non è un merito) che dalle tendenze Oi! iniziali si farà col tempo sempre più hardcore e persino metal – riascoltato adesso, per dirla in modo punk, odora spaventosamente di rancido. Questo esordio non è particolarmente più brutto dei dischi che seguiranno, è solo più grezzo. E poi ha quel titolo in simbolica e palese contraddizione con i tempi. Il punk, con gruppi come gli Exploited, era già morto e sepolto. Almeno per chi pensava che dovesse essere qualcosa in più di una cresta, una siringa e un chiodo con la A cerchiata disegnata sulla schiena.
PETER FRAMPTON – Frampton Comes Alive! (A&M, 1976)
A volte ci si affeziona anche alle schifezze. Chiunque sia stato ragazzino a cavallo tra anni ’70 e ’80 ricorda la faccia da cherubino beota di Peter Frampton. Era sempre lì che ti guardava dagli scaffali della Standa, dove si andava a spendere in dischi le prime paghette. Qualcuno l’ha anche comprato – perbacco, era o no l’autore del “disco live più venduto della storia?” – e per uscire dal tunnel ci ha poi messo degli anni. Oppure è passato immediatamente ai Clash. Comunque sia, Frampton Comes Alive! è uno scheletro nell’armadio di tanti di noi, e quasi quasi dispiace che i giovani di oggi non abbiano la minima idea di chi fosse il chitarrista inglese. Al massimo, l’avranno visto citato da Nick Hornby in Alta Fedeltà, e si saranno chiesti chi fosse questo tipo che faceva musica per ”californiani rinciuliti dalla coca”. Beh, non stiamo a farvela tanto lunga: era un amicone di David Bowie, abbastanza belloccio da vincere il titolo di “Face of ‘68” quando suonava nella teen-band degli Herds (praticamente i Backstreet Boys della Swingin’ London) e discretamente bravo con la chitarra per finire a suonare rock-blues negli Humble Pie di Steve Marriott. Dopo un paio di dischi con questi ultimi, si mette in proprio e con un terzetto di mestieranti riciclati da band dell’epoca forma i Frampton’s Camel. Nel 1976 registra al Winterland di San Francisco le canzoni che compongono questo doppio album (scusate, non riusciamo a pensarlo se non in vinile). Successo stratosferico: sei milioni di copie vendute in un anno. Il rockettone segaiolo e melodico di Show Me The Way, Do You Feel Like I Do e Something’s Happening ha lo stesso potere evocativo di certi vecchi episodi della Famiglia Bradford o di Love Boat: ricorda un periodo che tutti hanno giustamente scelto di dimenticare. La carriera successiva di Frampton è ovviamente all’insegna dell’inutilità più desolante. Qualche anno fa se ne è pure uscito con un Frampton Comes Alive II. Uno non bastava? Ehi Peter, quando dicevamo che ci si affeziona alle schifezze era per fare una battuta.
SLAYER – Divine Intervention (Def American, 1994)
Essere democratici è un bel casino, a volte. Perché in nome della sacra inviolabilità del diritto di parola e della libera espressione ti tocca poi difendere gente ripugnante come gli Slayer. Non avremmo voluto essere nei panni del giudice americano che nel 1996 assolse la band da qualsiasi responsabilità riguardo allo stupro e all’omicidio di Elyse Pahler, una ragazzina di quindici anni seviziata a morte da tre adolescenti che dichiararono di aver agito suggestionati dalle canzoni di questo disco. A malincuore va detto che quel giudice aveva ragione. Se il Primo Emendamento vale per Jello Biafra (che fu peraltro trattato molto peggio) purtroppo vale anche per gli Slayer. E poi, come si dice in questi casi, si tratta di arte. Di metafore, che condannano implicitamente quello che descrivono. Sì, come no. Ecco un esempio di artistica metafora slayeriana (da Sex, Murder, Art): “Non sei niente, sei un oggetto animato, un manichino sottomesso… da violentare ancora e ancora… sangue sulle tue ginocchia, ciò di cui ho bisogno è la mia soddisfazione, il dovere di prendere il mio pugno e violarti in ogni buco. Piacere nell’infliggere dolore, un potere così intenso… dio è morto e io sono vivo…”. Se dovete andare a vomitare, fate pure. Questa è solo una delle tante perle di poesia regalateci dal gruppo californiano, che forse dal punto di vista eminentemente musicale non meriterebbe di stare in questa lista (insomma, de gustibus…). Il fatto è che oltre alla musica anche le parole sono importanti, e spesso ce ne dimentichiamo. Se il thrash-metal di dischi come Reign In Blood poteva essere apprezzato per la sua feroce carica di novità, i testi degli Slayer sono sempre stati indifendibili. Puro letame nazi-satanista condito da superomismo disperatamente privo di humour (difficile, in effetti, far ridere quando parli di SS o di feti crocifissi) che più che a Nietzsche fa pensare al Mein Kampf recitato da Beavis e Butthead. Il minimo che ci si può aspettare da gente che dedica canzoni a Josef Mengele e che a proposito del golpe in Cile (paese d’origine del bassista Tom Araya) commenta: ”E che sarà stato mai? Hanno solo fatto fuori un po’ di comunisti…”.
YES – Tales From Topographic Oceans (Atlantic, 1973)
Il disco più importante della storia del punk? No, non è Never Mind The Bollocks, e neppure Ramones. È questo. Per tutti coloro che già nel 1973 incominciavano a non poterne più degli eccessi del progressive rock, Tales From Topographic Oceans fu come un gigantesco drappo rosso agitato davanti a un toro incazzato. Il segnale che si doveva fare piazza pulita, prima che fosse troppo tardi e si finisse tutti quanti a girare con tuniche di strass alla Rick Wakeman declamando passi scelti dal Signore degli Anelli. Se è possibile individuare il momento esatto in cui il prog ha raggiunto il punto di non ritorno, sicuramente deve stare da qualche parte di queste estenuanti, interminabili, abominevoli quattro facciate. Una mappazza indigeribile e indifendibile da qualsiasi punto di vista. In questi beati tempi di revisionismo post-tutto, in cui le contrapposizioni ideologico-musicali sono fuori moda tanto quanto le chitarre a tre manici, possiamo permetterci di essere indulgenti persino con gli Yes, e ammettere che in fondo qualcosa di buono nei primi dischi del gruppo (almeno fino a tutto Yes Album, e mettiamoci pure qualcosina di Fragile e Close To The Edge) si può anche trovare. Qui no. Qui gli Yes non fanno prigionieri, guidati nel massacro del buon gusto dalla vocina da castrato di Jon Anderson e dalle mitragliate tastieristiche di uno dei più deprimenti pagliacci della storia del rock, il Wakeman di cui si diceva qualche riga fa. Ispirato da un qualche accidente di santone o pensatore mistico (Yogananda Parananda, o forse Benny Hill), Farinelli voce regina srotola una caterva di nonsense che farebbero piegare in due dalle risate, non fossero infilati in “canzoni” della durata media di venti minuti, con titoli di omerica imbecillità come “La scienza rivelatrice di Dio – Danza dell’alba” o “Gli antichi giganti sotto il sole” o ancora (il nostro preferito) “Ritual – Nous sommes su soleil”. Tra l’altro: in trent’anni, qualcuno ha scoperto cosa diavolo sono gli “oceani topografici”?
BEE GEES – Spirits Having Flown (Polydor, 1979)
Se l’inferno esiste, deve essere così: un’immensa palla di cristallo che gira, uomini con la permanente e il medaglione d’oro sul petto peloso che parlano in falsetto e uno stereo che manda ventiquattr’ore al giorno Spirits Having Flown. Non crediamo esista un disco più brutto di questo. Perché Spirits Having Flown è brutto in modo totale, onnicomprensivo, diremmo quasi metafisico. Non è recuperabile neppure in chiave trash, o come agghiacciante testimonianza di un’epoca oscura: quello semmai è un privilegio che spetta alla colonna sonora de La febbre del sabato sera, che un suo senso storico almeno ce l’ha. Quest’album, invece, riflette semplicemente uno spaventoso nulla. Non è pop, non è disco-music, non è niente. Tre miracolati che si ritrovano a dover cavalcare l’onda di un successo clamoroso avendo speso l’ultima buona idea almeno dieci anni prima, quando erano un ottimo gruppo pop-psichedelico. Persino la loro resurrezione discotecara e prefabbricata aveva un qualcosa che catturava lo spirito dei tempi e che a distanza di anni permette di riascoltare Stayin’ Alive senza dover necessariamente ricorrere all’antispastico. Beh, provate a risentire Tragedy o Too Much Heaven: qualsiasi supplizio, palude Stige compresa, vi sembrerà preferibile.
SIGUE SIGUE SPUTNIK – Flaunt It (EMI, 1986)
Ogni decennio ha avuto i Marilyn Manson che si merita. Chi è cresciuto negli ‘80 si è beccato – fortunatamente per poco – i Sigue Sigue Sputnik, che dell’anticristo con l’occhio pallato erano la versione light, adeguata all’edonismo kitsch di quegli anni. All’epoca, invece, qualcuno vide in loro una sorta di remake della “grande truffa del rock’n’roll” per l’aggressiva strategia alla Malcolm McLaren con cui cercarono di imporsi, dai miliardi estorti alla EMI (i soliti geni, quelli lì) allee cazzate pseudo-situazioniste con cui condivano le loro dichiarazioni ai giornali (il leader Tony James, del resto, vantava un passato punk nei Generation X) o i loro disgustosi video sado-rock. “Ultraviolenza!” proclamava lo spaventapasseri Martin Degville, ma più che ad Arancia Meccanica faceva pensare all’ Abatantuono prima maniera. Comparate alla desolante qualità della musica, comunque, le vaccate provocatorie e neppure tanto velatamente destrorse dei testi sembravano opera di Leonard Cohen: rockabilly elettronico per lobotomizzati, volendo dare una definizione sintetica come la produzione di – guarda un po’ – Giorgio Moroder. All’epoca li odiavamo tutti, i Sigue Sigue Sputnik. Oggi, prevedibilmente, vengono invece incensati dai soliti “scrittori gggiovani” con il mito degli anni ’80. Che uno Sputnik gli potesse cadere sulla testa.
SIMPLE MINDS – Once Upon A Time (A&M, 1985)
Il successo, alle menti semplici, può dare alla testa. Come quando ti ritrovi di botto ai cinquemila metri senza essere abituato all’altitudine e per il troppo ossigeno incominci a sbiellare. Il Jim Kerr di Once Upon A Time ce lo ricordiamo proprio così: in cima a una montagna a braccia spalancate, nel video dell’orrida Alive And Kicking, alle prese con la sua miglior imitazione di Dio. Con questo disco, compendio del peggior stadium-rock degli anni ’80, i Simple Minds azzerano del tutto la rispettabilità new wave già abbondantemente fatta a pezzi dal macellaio Steve Lillywhite nel precedente Sparkle In The Rain. A fare danni qui c’è la terribile coppia Bob Clearmountain-Jimmy Iovine, ma probabilmente neppure il più minimale dei produttori avrebbe potuto riabilitare canzoni intollerabilmente pompose come Sanctify Yourself o All The Things She Said. Gli inglesi le definirebbero con l’aggettivo “bombastic”. È intraducibile, ma rende perfettamente l’idea.
SUPERTRAMP – Breakfast In America (A&M, 1979)
Cosa si può dire di un gruppo rock il cui principale successo è stato coverizzato dalla moglie di Gianni Rivera? Elisabetta Viviani oggi non se la ricorda più nessuno, i Supertramp invece sì, e non è giusto. Perché i rispettivi contributi artistici alla storia della musica più o meno si equivalgono. L’unica differenza sta nei diciotto milioni di copie vendute di Breakfast In America, l’lp che conteneva appunto quella Logical Song tradotta (“La canzone logica”, se la memoria non ci inganna) dalla simpatica Betta. Uno sproposito commerciale del genere è abbastanza per farci odiare un album? No, non fosse che nel 1979 uno non aveva il coraggio di accendere la radio per paura di sentire nel giro di un minuto la vocetta da gatto vasectomizzato di Roger Hodgson attaccare con “goodbye straaaanger…”. Oppure il piano elettrico di Roger Davies, o il sassofono super-kitsch di come si chiamava il sassofonista. Se ci pensate, è terribile essere presi in ostaggio radiofonicamente da un gruppo di vetero-hippy riciclatisi dal progressive al pop da FM. Accidenti a quel miliardario olandese che finanziò la nascita del gruppo alla fine dei Sixties: il vero “crimine del secolo”, per parafrasare il titolo di un altro loro famoso disco.
TOTO – Toto IV (Columbia, 1982)
Un gruppo, quello dei fratelli Porcaro – Jeff e Steve; ci sarebbe stato bene anche il nostro compianto Giorgio, però – che faceva pietà davvero in toto. Irrecuperabili, dal nome al look (orripilante ibrido tra gli Eagles e i Cugini di Campagna), passando per i titoli dei dischi (Hydra? Fahrenheit?? Tambu???) e finendo ovviamente con la musica. Una pappetta soft rock tardo-californiana con qualche strizzata d’occhio alla disco più becera, suonata con tutta la perizia e l’assenza di passione che solo una band composta da navigati turnisti di studio poteva avere. Toto IV è diventato ovviamente disco di platino, ma fin dal primo ascolto si capiva che era un disco di qualcos’altro. Una cosa che è l’esatto opposto del platino. Con il suo romanticismo da supermercato e il suo tanfo di cocaina ha appestato qualche milione di festicciole liceali dell’epoca. Quando arrivavano le prime battute di Rosanna – il ballatone che il chitarrista Steve Lukather dedicò, beato lui, alla fidanzata Rosanna Arquette – era il segnale che stava per scattare il gioco della bottiglia, mentre con Africa, forse stimolati dal titolo, partivano i palpeggiamenti. Se i trentacinquenni di oggi sono una generazione sessualmente incasinata, adesso sapete a chi dare la colpa.
BLINK 182 – Enema Of The State (MCA, 1999)
Nel loro quarto disco – primo su una major – i cattivi ragazzi californiani danno prova di impressionante maturità. Peccato che si esaurisca tutta nel gioco di parole del titolo. Stremati dallo sforzo dopo aver prodotto un pun degno di un G.B. Shaw laureatosi al Bagaglino, i tre Blink 182 si accontentano di rifilare ai quattro milioni di ascoltatori che hanno comprato il disco (q-u-a-t-t-r-o milioni, capito il grado ormai irreversibile di de-evoluzione a cui siamo giunti?) il loro solito sboccatissimo skate-punk melodico, parodia qualunquista di un genere musicale che non ha mai brillato per spessore ma che nei suoi esponenti migliori (dai Descendents giù giù fino ai Green Day) possedeva una carica di stupidaggine naturale che conquistava. Sappiate comunque che Enema Of The State, con la sua pornostar Janine in copertina e i suoi capolavori di fine umorismo come Disentery Gary, è un disco che vi cambierà la vita. Se avete undici anni, beninteso.
LIVE – Throwing Copper (Radioactive, 1994)
Ogni band importante ha avuto i suoi gruppi-clone. Branchi di pecore Dolly incapaci di elaborare in modo personale le intuizioni con cui gente infinitamente più talentuosa di loro ha contribuito all’evoluzione della musica rock. I R.E.M. e gli U2 di imitatori ne hanno avuti a decine, ma forse nessuno più molesto dei Live. La cui unica forma di originalità, per l’appunto, consisteva nel copiare non uno ma due modelli. In Throwing Copper l’epica pomposità degli arrangiamenti (qualcuno ha mai capito perché Jerry Harrison dei Talking Heads si è messo a fare il produttore?) fa il paio con gli scimmiottamenti di Michael Stipe del cantante Ed Kowalckzyc, che in comune con il suo idolo ha solo il fatto di essere pelato. Un disco che spiega perfettamente perché il cosiddetto “alternative rock” è stato in realtà uno dei più vacui esempi di mainstream mai esistiti.
MARILLION – Script For A Jester’s Tear (Capitol, 1983)
Ebbene sì, non solo c’è stato un progressive. C’è stato anche un revival del progressive. Tra i gruppi impegnati a riesumare gli spaventosi onanismi di Tony Banks o Rick Wakeman (gran bella idea, soprattutto in piena new wave: più o meno come fondare un partito monarchico nel ’46), i Marillion sono stati quelli più furbi. Invece di fare la fame come i puristi Pendragon, Pallas, IQ e compagnia baroccheggiante, hanno venduto tonnellate di dischi “tagliando” la loro formula letale con dosi consistenti di pop e hard-rock molto gradite alle radio degli anni ’80. In questo esordio si limitano però ancora a fare i Genesis der Tufello. Prendendo il nome da Tolkien e i testi dalle regole di Dungeons & Dragons, il gruppo di Fish (il nome vero è anche peggio: Derek Dick) si presenta subito nel peggiore dei modi. Curiosità: il disco successivo si intitola Fugazi. Riuscite a pensare a qualcosa di più distante da Ian McKaye dei Marillion?
MOODY BLUES – Days Of Future Passed (Deram, 1967)
A volte si deve essere impietosi, anche a scapito di qualche attenuante generica. Nel caso dei Moody Blues, verrebbe voglia di usare la mano leggera, in virtù del loro contributo iniziale alla causa della british invasion e persino della bontà di qualche canzone successiva (come la celeberrima Nights In White Satin, qui presente). Purtroppo per loro, la storia non può esimersi dal condannare i cattivi maestri. Gli arrangiamenti orchestrali di Days Of Future Passed potevano essere frutto di una utopistica voglia di territori vergini da esplorare (ehi, era pur sempre il 1967!), ma si porta sulla coscienza i troppi abomini perpetrati negli anni successivi, quando lo stupro della musica classica compiuto dal rock (e viceversa) diventò una triste abitudine. Emerson Lake & Palmer che devastano Mussorgsky sono stati gli esecutori più biechi, ma i mandanti sono i Moody Blues di quest’album.
STONE ROSES – Second Coming (Geffen, 1994)
Pochi dischi degli ultimi quindici anni sono stati tanto sospirati quanto il secondo capitolo delle Rose di Pietra. Dopo cinque anni di attesa, a rimanere impietriti furono però gli ascoltatori. Dov’erano finite tutte quelle belle intuizioni al confine tra dance e sixties pop del debutto, uno dei pochi album ad essersi meritato davvero l’aggettivo “neo-psichedelico”? E quel groove arrogante e ammaliante allo stesso tempo, come avevano fatto a perderlo? Forse in cinque anni passati a litigare con l’industria discografica, stonarsi davanti alla televisione e ascoltare un po’ troppo i Led Zeppelin. I riff vetero-rockettari di John Squire e la voce scazzata di Ian Brown evidenziano la disastrosa involuzione del madchester sound. Peccato non ci fossero i limoni sulla copertina, come nel primo album. Là servivano a combattere i lacrimogeni della polizia, qui i problemi intestinali provocati dall’ascolto.
SWEET – The Sweet (RCA, 1973)
Una band che fa sembrare Marc Bolan un compositore dodecafonico e Ziggy Stardust un impiegato di banca si può definire con un solo aggettivo: coatta. Insieme a Gary Glitter, gli Sweet hanno sventolato con orgoglio la bandiera del glam rock più consapevolmente buzzurro, vendendo una quantità paurosa di dischi e prendendo a martellate qualsiasi parvenza di buon gusto. In effetti uno potrebbe chiederci, filosoficamente, cos’è il buon gusto. Di sicuro non è cantare cose tipo Wig-Wam Bam conciati come il pellerossa gay di Arrapaho. Eppure con i loro chitarroni finto metal, le zeppe al ginocchio e le pettinature stile Cleopatra, un sorriso tra i cultori del trash possono ancora strapparlo. Il disco qui indicato è puramente simbolico, essendo stati gli Sweet, come ogni vera teen-band che si rispetti, soprattutto un gruppo da singoli. Procuratevi un greatest hits, se volete farvi male davvero.