Come mi auguro accada a ogni buon torinese, mi ha sempre ammorbato quella trita, noiosissima menata su “Torino città magica”. Oppure, nella sua versione hardcore, “demoniaca”. Tutto quel bric-à-brac fatto di triangolazioni di magia bianca (con Praga e Lione) e nera (con Londra e San Francisco: certo, qui non potevamo gemellarci per la musica), scacchiere del diavolo, piazzette nelle quali si concentrano energie maligne, teste di capro usate come battenti sui portoni delle palazzine della Crocetta, sacri Graal nascosti nella chiesa della Gran Madre, maledizioni di don Bosco e altre decine, centinaia di fesserie kitsch sulle quali poggerebbe la presunta natura esoterica di Torino. Fa tutto parte della stessa brochure turistica, assieme a grissini, gianduiotti, bollito, Mole Antonelliana e Juve (questa sì, unica presenza demoniaca certificata della città).
Il diavolo a Torino non starà nei dettagli ma neppure in un guazzabuglio di cose senza relazioni tra loro, né storiche né fattuali né culturali, il cui intreccio fantasioso è frutto più che altro dell’antica radice massonica della città mescolata a un perverso senso dell’umorismo, che fa ridere solo i torinesi e stranamente risulta incomprensibile al resto del mondo. D’altra parte, essendo fondata sui contrasti e le antinomie, Torino è anche la città che a questo campionario di ciarpame da mentecatti e babau da film di serie Z ha sempre saputo opporre il suo esatto opposto: un ferreo positivismo scientista che a volte (vedi Lombroso e i suoi allegri scheletri di briganti calabresi) è stato assorbito esso stesso in questa bagna cauda di stranger things.
Con tutto ciò, un libro come Le venti giornate della città di Torino c’entra poco. Quasi nulla. Eppure, questo romanzo dimenticato per quarant’anni e ora in procinto di diventare cult (nei paesi anglosassoni lo è già da qualche tempo) è l’unica testimonianza letteraria in grado di far vacillare, almeno per la durata della sua lettura, le menti più rigidamente razionaliste come quella del sottoscritto.
In queste pagine, Torino fa davvero paura. Torino sembra davvero attraversata da qualcosa di malvagio. Qualcosa che rimane appiccicato addosso anche dopo aver terminato il romanzo, lasciando in testa una sensazione di paranoia umida e malsana come le rive del Po.
A fare la sinossi di un romanzo di neppure 150 pagine (peraltro densissime) si rischia di raccontarlo dall’inizio alla fine e di spoilerare tutto lo spoilerabile. In estrema sintesi, Le venti giornate di Torino è il racconto di una indagine impossibile. Un classico di molta letteratura (e cinema) all’incrocio tra giallo, horror e fantastico, nella quale il protagonista e voce narrante è un detective per caso, intestarditosi a dipanare i misteri di una vicenda messa sotto il tappeto dal resto del mondo. In questo caso, si tratta di un impiegato del quale non conosciamo il nome, che lavora in una non precisata “ditta” (termine che fa già molto travet piemontese), flautista dilettante e ancor più dilettante investigatore. Dilettante ma, come si intuisce dalle prime pagine, non esattamente geniale. Il caso che si è messo in testa di risolvere è quello di un oscuro periodo risalente a dieci anni prima. Quando per venti giorni di luglio Torino venne sconvolta da una epidemia di insonnia, da misteriose premonizioni e – tanto per gradire – da una serie di orribili delitti che sembravano commessi da entità non-umane. Poi, così come l’orrore era nato, si era dissolto. Oppure, più inquietantemente, mimetizzato in una nuova normalità. Nella quale, per esempio, Torino si era in parte spopolata con il prudente ritorno a casa degli emigranti dal sud.
“Il ritrovarci, quasi d’un tratto, ripiegati nella purezza autoctona – un evento sia pure da molti auspicato con acre spirito campanilistico – aveva finito per creare un entrale senso di smarrimento. ‘Oh guarda chi si rivede! Di nuovo tutti insieme fra noi, se Dio vuole!’”.
Un passaggio come questo farebbe oggi la felicità del leghista medio, nell’improbabile caso che sapesse leggere. Ma in realtà coglieva una pulsione più profonda, un improvviso sentirsi fuori posto e fuori di sesto tipico del periodo in cui venne scritto il romanzo, e che chiunque sia cresciuto in una famiglia torinese doc in quegli anni sicuramente ricorda.
Ed è proprio quella Torino a essere protagonista, più che fondale, della storia. La Torino de La donna della domenica e quella (appena visibile) di Profondo rosso. Ma anche quella del derby Toro-Juve che valeva lo scudetto, del PCI al potere, del terrorismo diffuso. Di tutto ciò si avverte un’eco, più o meno esplicita, nel romanzo. Insieme alla Torino più classicamente noir, con i suoi luoghi simbolo e i suoi monumenti, presenze urbane praticamente invisibili all’occhio del passante ma – almeno in questo caso – tutt’altro che benevole. Quella che non c’è, appunto, è la Torino dell’esoterismo cheap. Se ne fa solo un accenno quando viene nominato, con evidente intento sprezzante, il “mago Rol”.
E poi, incastonata in questa cornice sabauda, c’è l’invenzione borgesiana di De Maria, il colpo di genio che ha fatto drizzare le antenne anche all’estero e che rende Le venti giornate di Torino un caso di preveggenza letterario più unico che raro. Si tratta della Biblioteca. Non starò a spiegare cos’è, altrimenti racconto tutto il libro. Chi leggerà si renderà conto che qui, nella mostruosa Biblioteca ospitata (altra intuizione straordinaria) nei padiglioni del Cottolengo- uno dei luoghi in cui la dialettica luce-ombre di Torino si manifesta al massimo della sua potenzialità – De Maria anticipa davvero, come è stato stato notato da chi finora si è preso la briga di parlarne, il nostro presente. Social network, interrelazione, self-publishing, haters, troll, gentismo, condivisione malata e solitudine assoluta: c’è tutto. Messo nero su bianco (molto più nero che bianco), nell’autunno del 1976.
La Biblioteca è una creazione reale che finisce per diventare qualcosa di metafisico. Proprio come le realtà virtuali di oggi, le varie cloud e secret room nelle quali la gente ama disperdersi. O come la pittura di De Chirico, che dalle piazze e dai portici di Torino venne profondamente ispirato. Leggendo il romanzo di De Maria vengono in mente svariati altri riferimenti: l’ovvio Lovecraft (non quello sbrodolone e verboso del ciclo di Ctulhu, semmai quello conciso e davvero terrorizzante di racconti come Nyarlathotep, profeta dell’apocalisse che – coincidenza – suonava anch’esso il flauto come l’investigatore del romanzo), Poe, il Kafka de Il castello.
In questo splendido e competentissimo articolo pubblicato da Not, l’autrice Sara Marzullo ne aggiunge altri ancora – Guido Morselli, La casa delle finestre che ridono – ai quali non avevo pensato ma che in effetti calzano perfettamente. Nel pezzo si delinea con chiarezza il perimetro culturale – cosciente o pre-sciente – de Le venti giornate di Torino, raccontando anche le varie coincidenze e intrecci inquietanti che hanno a che fare con la vita dell’autore – morto alcolizzato e dimenticato più di trent’anni dopo, in preda a crisi mistiche e senza anche avesse più pubblicato una riga – e persino con la ripubblicazione attuale. Tutto molto eerie e molto weird, per usare le parole della Marzullo. Ci sarebbe sufficiente materiale per un altro romanzo, ce n’è comunque stato per un saggio di Giovanni Arduino, che immerge le mani in questa mefitica matassa sciogliendone tutti i nodi, narrativi e biografici.
Ma una lettura che farebbe magnificamente da pendant a Le venti giornate di Torino è anche Il mistero di Torino di Vittorio Messori (in realtà ci sarebbe pure una parte di Aldo Cazzullo, tranquillamente sacrificabile). Uno dei libri più belli e profondi che abbia mai letto sulla mia città, per giunta scritto da un torinese d’adozione e non di nascita. Superata la diffidenza dovuta alla distanza ideologica con l’autore, lo sguardo malizioso da coltissimo flaneur di Messori mi ha davvero portato al centro del mistero di Torino. Un mistero che non è fatto, come detto, di maghi, maghetti, esorcisti, satanismi fumettistici con corredo di orge nelle ville della collina e altre stupidaggini del genere. Sta, appunto, in qualcosa di metafisico. Una corrente sotterranea, elettrica, un imprinting quasi biologico – risultato di un adattamento allo spazio, ai resti monumentali, alle formule verbali, al mescolamento di tradizioni, alle contraddizioni, persino all’aria di Torino – che si nasconde dietro la maschera alla Macario del “torinese falso e cortese”. Metafisico come la paranoia, che è la vera regina del romanzo di De Maria.
Un paranoia incredibilmente moderna. C’era nel 1976, c’è molto di più oggi. Qualcosa che forse solo gli scrittori – o certi scrittori – sanno captare. Come notava Messori, Torino detiene tra le altre cose anche il primato degli scrittori che si sono uccisi. Salgari, Pavese, Levi, Lucentini sono i primi a venire in mente. Nietzsche vi è impazzito. Kafka si era ripromesso di starne alla larga. Chissà cos’è, si chiede Messori, che vedono di così spaventosamente illuminante, in questa città, gli scrittori. La stessa domanda che ci si può fare a proposito di De Maria, visto come è finito. Ma forse nessun scrittore avrebbe mai potuto andare oltre il finale de Le venti giornate di Torino. Uno dei più spaventosi, malsani, visionari, inquietanti finali di romanzo che avrete la ventura di leggere.